“Hadar, quella con i biscotti”. Si è firmata così Hadar Buchris – la ventunenne rimasta vittima di un attentato terroristico per mano palestinese a Gush Etzion – nella sua lettera alla famiglia Godstein, che l’ha ospitata per un mese conclusosi solo due settimane fa nella Chabad House di Pushkar, in India. Una permanenza che le ha fatto “prendere qualche chilo”, ma soprattutto che le ha “insegnato tanto, così tanto, e senza dubbio mi ha lasciato con la voglia di imparare ancora di più”. Era questo lo spirito positivo con cui Hadar, che aveva studiato recitazione e si era appena iscritta alla scuola femminile Zohar College nell’insediamento Bat Ayin, affrontava la vita, quello che tutti ricordano di lei.
Il viaggio in India, durato sei mesi, era la sua meritata esperienza post servizio militare, un grande classico per la gioventù israeliana. Hadar per i due anni di leva aveva lavorato in particolare con i bambini, prima in un moshav vicino a Tiberiade e poi in un kibbutz a Beit She’an, nel nord di Israele. Era nata a Netanya, dove aveva vissuto con la madre Frechia e dove abita anche suo padre Arieh. Poi aveva studiato a Safed, in Galilea, nella scuola attualmente ancora frequentata da sua sorella, a cui era strettamente legata. In seguito gli studi di recitazione nelle alture del Golan, dove secondo la sua maestra di teatro Ayala Eretz Hazvi ha mostrato “un grande talento sia come attrice tragica sia come attrice comica”. Ma soprattutto, di lei ricorda “le vibrazioni positive”. Hadar avrebbe infatti potuto firmarsi anche “quella con il sorriso”, poiché è quello che di lei è rimasto più impresso nei cuori di chi l’ha conosciuta. “Era una ragazza fantastica e brillante, e quando nel gruppo mancava energia era sempre in grado di spronare tutti”, racconta Ayala. “Era anche una specie di ‘psicologa’, si offriva sempre di ascoltare chiunque avesse bisogno mostrando grande empatia, anche fino a tarda notte”.
Per Buchris la famiglia aveva grande importanza, e Shimshon Goldstein racconta che durante il suo soggiorno alla Chabad House di Pushkar, mentre accudiva suo figlio Shilo, la ragazza diceva sempre: “Un giorno voglio essere madre”. A Gush Etzion si era trasferita insieme a un’amica conosciuta proprio in quel viaggio, e gli studi di ebraismo che aveva intrapreso erano un’esperienza a cui teneva molto. Perché Hadar era senza dubbio anche “quella piena di fede e di vita”. Goldstein ricorda che “è arrivata qui parlando in continuazione di quanto volesse vivere una vita all’insegna della verità e della giustizia, una vita dedita all’azione per lo Stato di Israele e alla missione di far del bene a tutti”. Lei stessa, nella lettera lasciata prima di partire, scriveva a quella famiglia: “Grazie per avermi mostrato la vostra fede, incrollabile e senza compromessi! Siete fortunati! Avete evocato in me una nuova consapevolezza e una nuova ispirazione, e non è qualcosa da dare per scontato, specialmente oggi”.
A un gruppo di Whatsapp – perché bisogna ricordare che Hadar era anche questo, una ventunenne del 2015 dagli occhi svegli che usava i social network e faceva spensierati selfie in tutte le pose – aveva scritto qualche giorno fa: “Io penso solo che il Mashiah debba arrivare presto, perché lo Stato di Israele non può più soffrire, semplicemente non può”.