Il nuovo testo di Giuseppe Gagliano, di qui analizzato sotto il profilo politico e strategico, ripercorre la storia della guerra economica nonché le sue implicazioni geostrategiche, focalizzandosi sui tratti meno evidenti nonché maggiormente ricorrenti e dimostrando il doppio binario che la stessa percorre insieme alla guerra delle informazioni.
L’esperto sostiene, nel testo, che la guerra economica abbia una natura proteiforme. In primo luogo la guerra economica si sostiene attraverso strategie indirette, senza la necessità di contesto di conflitto. Indebolire economicamente l’avversario minacciando, anche attraverso armi informative, la sua immagine, è un’attività che nel corso della storia sembra verificarsi solo ed esclusivamente in tempo di pace. Il potere di uno Stato o di una multinazionale si esprime, oggi, principalmente tramite la capacità di rendere gli altri Paesi dipendenti dalle proprie tecnologie, dalla propria influenza finanziaria e dal proprio influsso nella definizione normativa delle nuove regole dell’economia di mercato.
Perché chiamarla guerra, allora?
Gagliano racconta alcuni degli esempi più emblematici di guerra economica nella storia, partendo da Colombo e analizzando i rapporti di forza economici all’epoca dei grandi imperi coloniali, passando per il ventesimo secolo, nel quale i conflitti di debole intensità hanno avuto dei chiari obiettivi economici, fino alle guerre per il controllo del petrolio in Medio Oriente che hanno sconvolto la regione sia da un punto di vista militare che economico e strategico.
La guerra economica è divenuta progressivamente un’arte per via delle modalità in cui le parti interessate sono riuscite a cancellare, camuffare o rimuovere le tracce dell’uso della forza bruta per sottomettere un popolo, conquistarne il territorio e impossessarsi delle ricchezze. Il caso asiatico rappresenta una serie di eccezioni al sistema di dominazione occidentale fondato sul libero scambio e sulla democrazia, poiché nazioni come Cina, Corea del Sud e Giappone hanno cercato di mantenere la propria identità inalterata incanalandosi in uno sviluppo economico (e tecnologico) più nazionale che globale.Le radici asiatiche dell’arte della guerra economica.
E’ interessante notare come secondo l’autore sia stato il Giappone il paese precursore delle nuove dinamiche di conflitto economico, assorbendo tutto ciò che ha potuto dall’influenza statunitense ma creando un’infrastruttura industriale privata –che oggi concretizza una vera e propria economia da combattimento.
La Corea del Sud ebbe un approccio abbastanza simile dopo la Guerra: priva di industria o quasi, la Corea del Sud ha inventato con autorevolezza un modello di sviluppo per fare fronte alla Corea del Nord, e ha fatto questo nel tentativo di giocar la sua partita nell’ottica di una futura guerra economica.La dinamica più dimostrativa dell’interiorizzazione del concetto di guerra economica in Asia è rappresentata dalla Cina, sulla base dell’applicazione economica dei rapporti di potere teorizzati da Sun Tzu e Mao Zedong.
La Cina ha costruito un particolare tipo di“capitalismo comunista” che ha saputo trarre profitto dalle esperienzeGiappo-coreane, nonché dall’osservazione metodica della dissimulazione delle tecniche offensive americane in ambito commerciale. La motivazione è stata la chiave di volta del successo del modello cinese: i continui tentativi di colonizzazione occidentale e i successivi di imporre il regime capitalista come modello ottimale hanno creato uno spirito di vendetta “nazionalista” che ancora oggi motiva le dirigenze aziendali a porsi come truppe in guerra.
La dittatura delle informazioni
La società dell’informazione ha cambiato il quadro operativo della guerra economica. Il potenziale offensivo dell’aggressore viene di certo ampliato dalle tecnologie dell’informazione. Il Softpower statunitense agisce chiaramente in questo modo, nascondendo un’arma strategica dietro Ong e strumenti di influenza politica nati per convincere la popolazione mondiale che esiste un attore malevolo, ed evitare che questa venga attratta da qualsiasi altra sfera di influenza. In questo modo la dipendenza degli alleati statunitensi nei confronti di Washington è sempre più consolidata –specialmente quella di quelli in via di sviluppo che hanno bisogno degli aiuti americani per sopravvivere.
Il sostegno alle cause umanitarie è un sistema abile di penetrazione delle sovrastrutture politiche e culturali di un Paese. Antonio Gramsci ce ne parla con il suo concetto egemonia culturale: lo “stato educatore”. Il motivo per cui gli Stati Uniti sono stati vincitori nell’utilizzo della lotta umanitaria per scopi strategici, è che hanno avuto il potere economico per farlo, mentre l’Unione Sovietica non ha mai visto un boom economico che gli permettesse di finanziare un programma umanitario serio.Lo studio di contesti sociali in via di sviluppo attraversò l’attività di social learning ha giustificato l’emergere di organizzazioni virtuali di intelligence economica senza sede, che attraverso l’umanitario sono riusciti a diventare un buon sistema per dissimulare i veri obiettivi e assumere posizioni di controllo dei processi decisionali. Un Paese in via di sviluppo, infatti, crede di prendere parte liberamente in un’attività di cooperazione quando in realtà si sta entrando in un rapporto di dipendenza.
Poteri forti: i nuovi deboli
In teoria il forte vince sempre sul debole. Il saggio di Gagliano, però, ribalta la concezione di debole e forte nella società moderna. La società dell’informazione ha sconvolto l’ordine naturale dei conflitti in quanto Internet ha donato al debole un potere di attacco inedito. Come principale canale di diffusione di attacchi informativi ed economici di ogni tipo, Internet ha eroso totalmente il potere dello Stato, mentre un cittadino con sufficienti capacità ha un potere di destabilizzazione estremamente efficace. Questo perché il “forte”, che sia la Nazione o una grande azienda, risulta estremamente vulnerabile a livello sociale e di immagine. In sostanza la classe imprenditoriale e politica non dispongono più dei mezzi coercitivi e del controllo della circolazione delle informazioni di cinquant’anni fa.
Avendo conservato negli scontri una naturale aggressività, il debole è andato alla ricerca di una nuova forma di legittimazione denunciando i problemi causati dal sistema produttivo. Insomma, mentre il debole in nome della buona fede indicava nel potere il solo interesse economico a discapito della salute del pianeta o dei diritti dei singoli, il forte ha sofferto l’handicap di essere già colpevole a prescindere per il proprio potere. Ong e partiti motivati da slancio popolare hanno quindi intrapreso non una guerra, bensì una guerriglia informatica. Questo scontro ha sempre un solo vincitore, poiché se è vero che non sempre le compagini popolari hanno ragione circa il comportamento corrotto di grandi aziende e nazioni, è anche vero che anche nei casi di errore chi subisce il colpo nonché il danno all’immagine è sempre il bersaglio. Inoltre le armi del “forte” sono ormai contenute a causa dell’ampiezza dei canali informativi sfruttati dai più deboli. Per ultimo ma non per importanza, il debole possiede un tipo di comunicazione più appetibile in quanto sfrutta attività di Ong e sistemi istituzionali a favore delle categorie che hanno “bisogno” di protezione. La guerriglia delle informazioni ha rivoluzionato il quadro della guerra economica, spostando il fulcro della stessa dal potere finanziario e industriale fino all’utilizzo offensivo dell’informazione, utilizzato con più efficacia delle fasce deboli grazie soprattutto all’impatto mediatico elle problematiche sociali, ambientali e sanitarie.
Le nuove guerre economico-informative
Lo scacchiere geopolitico è il terreno di scontro più infuocato in assoluto. Il Movimento di Boicottaggio (Bds) che opera contro Israele, ad esempio, ha ottenuto un grande successo mediatico attraverso l’utilizzo della difesa dei diritti dei palestinesi. Alcuni dei “risultati” che il Bds si vanta di aver ottenuto, però, hanno danneggiato principalmente onesti lavoratori palestinesi, spesso impiegati in attività israeliane colpite dal boicottaggio. La guerriglia informativa è anche utilizzata dai movimenti welfaristi, che sostengono, appunto, il ruolo del welfare state. Gli animalisti in particolare conducono campagne che si introducono capillarmente in tutto il mondo occupando un importante spazio informativo. Questo conflitto, in sostanza, non ha nulla a che vedere con lo spionaggio industriale fatto dalle agenzie di intelligence. Le forze informative non sono un ambiente chiuso, segreto e poco diffuso, bensì una massa di individui che attaccano l’immagine di colossi attraverso una totale posizione di inferiorità, quindi senza mettere in campo alcun tipo di rischio. Le minacce legate alla concorrenza sembrano meno aggressive, e spesso si servono proprio dell’inquinamento dell’informazione per sconfiggere l’avversario con meno sforzi e rapidità di risultato.
I cambiamenti causati dalla società dell’informazione hanno senza dubbio aperto altre vie molto meno rischiose di danneggiare un concorrente rispetto alle pratiche illegali dello spionaggio.
Un messaggio che funziona?
Una notizia veramente efficace deve potersi applicare alle masse. Il messaggio deve, perciò, essere accessibile, comprensibile e convincente. L’idea deve essere declinata in forme diverse a seconda del differente tipo di pubblico, sviluppare una retorica che si basi sulla legalità, la credibilità e la lucidità della riflessione stessa. La diffusione del messaggio al pubblico deve seguire un processo graduale, capace di raggiungere sia gli specialisti che i profani.Per catturare l’attenzione di tutte le categorie è fondamentale mescolare specialisti della questione che si sta trattando insieme a persone appartenenti alla fascia debole che subiscono gli effetti negativi di quanto di sta denunciando. Il tutto è fondamentale per riunire coloro che non hanno molto a che vedere con il problema, perché bisogna ideare una strategia per “costringere” questi soggetti ad interessarsi alla questione. Fondamentale, inoltre, intraprendere una strategia di diffusione digitale che sostenga la tesi e crei una rete informativa. Nelle società moderne, dove ciascun individuo può condividere le sue idee, la sfida è solo questa di essere considerato un attore legittimo (mentre la risonanza è più facile da ottenere). La difficoltà di una operazione di influenza consiste perciò nel creare, nel rispetto della legalità, uno spazio informativo autonomo attorno al messaggio che si intende trasmettere. Il suo successo risiede nella diffusione controllata del suddetto messaggio, che presuppone la definizione di obiettivi precisi e ragionevoli, una raccolta mirata di informazioni e l’elaborazione di un discorso adeguato.
Come affrontare le guerra delle informazioni
Una volta assimilato il concetto dell’inseparabilità tra l’economia e il mondo delle informazioni, Gagliano invita gli attori della società civile (non solo nazioni, ma anche aziende, industrie, ong e istituzioni di ogni tipo) a gestire i rapporti di forza considerando l’esistenza di una nuova priorità, che non sta nell’integrità del territorio, nel benessere dei cittadini o nell’acquisizione di segreti industriali. Quest’ultima risulta essere, ad oggi, l’informazione e il suo utilizzo attraverso la rete internet. Senza sottovalutare l’importanza del ruolo dei colossi della tecnologia globale, come Google, Apple, Facebook e Amazon, i quali possiedono un ruolo quasi monopolistico dei canali di distribuzione dell’informazione, il mondo digitale presenta un sistema del tutto nuovo di rapporti di forza che accompagnano le dinamiche conflittuali già esistenti (geopolitiche, geoeconomiche, religiose, culturali). Il Cyber spazio si rivelerà ogni anno di più essere un nuovo mondo, una dimensione immateriale che funziona su piani strategici del tutto differenti rispetto a quelli conosciuti dagli attori del sistema internazionale.
L’importanza del Comintern
Il saggio di Gagliano non si limita semplicemente a interpretare l’evoluzione del conflitto economico e dell’informazione, né ad applicarne gli assunti ai sistemi nazionali e sovranazionali, bensì fornisce esempi concreti e casi studio che sono imprescindibili per chiunque volesse capire a fondo il funzionamento di questi meccanismi.
Tra i numerosi casi studio, un’intera appendice è lasciata allo studio del Comintern, analizzato dall’autore che riprende l’interpretazione di Harbulot. Un secondo capitolo analizza il caso Pathè, mentre al gran finale sono lasciati numerosi casi studio che riguardano Greenpeace.
L’interesse di Harbulot verso il Comintern si concentra sulle tecniche utilizzate dai servizi di sicurezza russi per destabilizzare a livello cognitivo l’Occidente. Secondo l’autore e lo studioso, la strategia del Komintern ha gettato le basi della guerra delle informazioni cosi come la conosciamo oggi.
Il Comintern è la vasta rete sovversiva sovietica, la cui arma principale è la propaganda. Con essa, il Comintern ha operato e diffuso il messaggio rivoluzionario sulla base di attente analisi dei cambiamenti che hanno interessato la società. Il sostegno e l’attenzione alle difficoltà delle classi meno agiate ha permesso alle operazioni di propaganda di suscitare grandi reazioni collettive. Agitatori e propagandisti hanno in sostanza cooperato per dare una spiegazione alla sofferenza della popolazione canalizzandone il malcontento verso un obiettivo strategico. La storia del movimento operaio internazionale è, secondo l’autore, una storia che ha poco a che vedere con l’attività operaia in se e molto di più con la manipolazione psicologica delle masse. Le attività segrete di propaganda dei militanti all’interno dei partiti comunisti, come quella dei giovani tedeschi che hanno fatto propaganda sulle imbarcazioni, hanno permesso la nascita dei primi comitati d’azione e nuclei clandestini. Nel caso tedesco, infatti, scoppiò una violenta insurrezione di lavoratori al porto di Amburgo: non riuscì nell’intento, ma scatenò una serie di episodi simili finalizzati ad “allenare” il comunismo mondiale alla vera rivoluzione sovversiva mondiale.
Gli sforzi di un contesto così asimmetrico sono stati chiaramente incentivati dall’Unione Sovietica, che non riusciva ad agire militarmente sul territorio europeo e fu dunque costretta a diffondere l’ideologia attraverso una guerriglia delle informazioni. Se l’arma della propaganda si è rivelata di un’efficacia temibile all’interno dei Paesi in via di sviluppo impegnati nelle lotte d’indipendenza, essa ha però dimostrato i suoi limiti operativi negli Stati occidentali.
Un tempo utilizzate per fini politici, queste tecniche ancora grossolane e poco abili saranno perfezionate dai movimenti terroristici e dalle organizzazioni ambientaliste negli anni ’70. Queste ultime ad oggi sembrano padroneggiare appieno la tattica dell’informazione offensiva utilizzandola come leva di destabilizzazione a svantaggio dei grandi gruppi industriali. Il più celebre esempio di questa strategia è quello di Greenpeace.
Greenpeace: colosso della guerra informativa
Greenpeace è la più celebre Ong al mondo che opera in difesa dell’ambiente.
Ancora oggi si espande attraverso la proposizione di una vasta gamma di campagne su temi ambientali, che vanno dall’inquinamento alla questione energetica sino alla protezione degli oceani. Se da un lato questa si autorappresenta nel mondo come una bandiera in difesa delle categorie deboli, dell’ambiente e del mondo animale, in realtà Greenpeace opera con successo proprio perché è diventata un’enorme multinazionale, con un reddito annuo di 345 milioni. La base del suo potere sta nella ricchezza come per la maggior parte delle ong, non già nel sostegno della povera gente.
Un altro episodio significativo spiegato da Gagliano è la campagna di Greenpeace contro Leclerc. La catena commerciale Leclerc, accusata di incoraggiare gli agricoltori a usare pesticidi per realizzare prezzi più bassi, fu presa di mira Greenpeace che attraverso la mobilitazione dei militanti bloccò una loro struttura a Toulouse. Questo episodio costrinse l’azienda a sottomettersi alla volontà dell’associazione. Il dato più evidente è il fatto che il rapporto che ha scatenato la protesta fosse in realtà pieno di errori di valutazione, e che Greenpeace non accettò mai l’invito a recarsi con degli scienziati nei campi per constatare l’eccesso di pesticidi. Lo stesso avvocato di Greenpeace ammise che il rapporto informativo della ONG non avesse alcuno scopo scientifico.
Continuando sulla scia dell’amplificazione mediatica delle proteste – di cui alcune con pochi fondamenti validi – di Greenpeace, l’attacco dell’Ong al gruppo cartiero Resolute Forest, accusata di nuocere alla rigenerazione delle foreste, di non rispettare le zone regolamentari e di pregiudicare le popolazioni autoctone, ha avuto il medesimo esito. Dopo mesi di battaglie legali l’Ong ammise che i suoi rapporti mancavano di precisione scientifica, ciononostante la sua popolarità non diminuì in alcun modo. Insomma, i “piedi d’argilla” di Greenpeace sembrano provenire proprio da chi ne ha legittimato il ruolo di difensore dei diritti dei più deboli. Nonostante i propri errori grossolani di natura scientifica, la sua immagine no ne risente, anzi la simpatia del mondo per quest’attività aumenta a dismisura, facendo sì che la linea di condotto non cambi nonostante gli errori. Greenpeace fa leva sull’emotività e la sensibilità delle persone, e la sua visibilità è garantita dall’importanza della società dell’immagine. La sua padronanza degli strumenti mediatici gli permette di mostrarsi “Davide” pur essendo “Golia”. Mediaticamente e dunque sul piano della reputazione e delle ripercussioni finanziarie, qualsiasi impresa è un soggetto debole nei confronti delle Ong.
Interessi chiave
Il testo, nella sua fase finale e forse quella più significativa, analizza scopi e finanziamenti di Greenpeace in un’ottica più critica rispetto quanto conosciamo già a partire dalla stampa internazionale. Tutto questo viene valutato attraverso la ricostruzione delle campagne più dure perpetrate dall’Ong contro la Total, presa di mira sia per i giacimenti bituminosi nell’Alberta (Canada), che per lo sfruttamento petrolifero in Amazzonia, e contro l’Edf, contro cui Greenpeace si schierò rifiutando il nucleare. L’obiettivo principale di Greenpeace è promuovere la conservazione della natura. Per fare questo, Greenpeace International coordina le varie organizzazioni nazionali, utilizza mezzi finanziari dell’organizzazione tra cui capitale proprio, contributi delle organizzazioni nazionali, donazioni e sovvenzioni, rendite provenienti da investimenti, ecc.
Le regole procedurali di Greenpeace International, attentamente illustrate da Gagliano, sembrano però confermare alcune delle critiche su meritocrazia e gestione aziendale mosse all’Ong. La storica battaglia del 2007 di Greenpeace contro Totale, come già evidenziato, esemplifica le critiche di “poca scientificità” delle ricerca della stessa. Quell’anno Greenpeace Canada aprì un nuovo ufficio a Edmonton, per lanciare una nuova campagna, denominata Clima & energia, sul tema dei giacimenti di sabbie bituminose. A essere preso di mira fu soprattutto il gigante petrolifero francese Total, a causa di un suo investimento nel settore delle sabbie bituminose. Greenpeace denunciò la responsabilità della Total nei cambiamenti cimatici e la complicità, di cui essa godeva da parte dello Stato e dell’Unione Europea. Ciò che è più incredibile, è che l’assimilazione tra sfruttamento dei giacimenti bituminosi e crimine ambientale, non si è basato su elementi scientifici: il materiale informativo distribuito dai militanti dell’Ong citava solo fonti interne o think thank ambientalisti. La realtà sulle sabbie bituminose, come il testo spiegherà con varie analisi quantitative e qualitative, è più complessa e sfumata rispetto a quella che trova rappresentazione nella campagna di Greenpeace.
Un secondo caso che evidenzia la tattica due pesi e due misure, a seconda degli interessi dell’Ong in questione, è quella dell’Amazzonia che risale a un paio di anni fa. Nell’aprile del 2016, un’equipe di trenta ricercatori oceanografici americani e brasiliani resero pubbliche le proprie scoperte su una grande barriera corallina nei pressi della foce del fiume Amazzonia. Pochi giorni dopo aver informato Total circa la scoperta e quindi protestando per le attività di estrazione della stessa in Amazzonia, l’Ong intraprese una spedizione sui luoghi per realizzare le prime immagini della barriera corallina. A seguitò di tale missione, l’Ong pubblicò un video di animazione in cui una fuga di petrolio che distruggeva l’ecosistema circostante. Nello stesso mese, Greenpeace lanciò una petizione contro l’azienda petrolifera, raccogliendo 1,2 milioni di firme. Dopo aver pubblicato una continua serie di fake news circa le attività della Total nella zona, è emerso come tutte le attività legate all’estrazione petrolifera di aziende Brasiliane fossero invece passate del tutto inosservate.
Un esempio di questa tattica basata sugli interessi dell’Ong è quello della Chevron, gigante petrolifero americano, che, a causa di uno sversamento in acque brasiliane fu interdetta dallo svolgere ulteriore attività estrattiva dall’Agenzia Nazionale petrolifera brasiliana. Nonostante la condotta incauta dell’azienda americana, però, gli uffici di Greenpeace rimasero insolitamente muti. Il testo di Gagliano approfondisce con una precisione degna di una ricerca scientifica, i singoli legami che legano l’elite dell’Ong ai grandi colossi petroliferi americani, nonché alcune fazioni politiche Brasiliane che – nonostante le idee strettamente nazionalistiche sullo sfruttamento degli idrocarburi – hanno appoggiato solo ed esclusivamente campagne contro alcuni operatori stranieri.
Gagliano sostiene, perciò, che I poteri forti dell’economia e della politica americana usano come cavallo di Troia le Ong ambientaliste, in modo tale che all’esterno si abbia la percezione di uno scontro impari fra un Davide (le associazioni ambientaliste) e un Golia (il colosso francese Total). La realtà del conflitto è, secondo l’autore, di origine economica.
L’ultimo caso studio analizzato da Gagliano è quello della lotta contro il Nucleare. Sembra infatti che Greenpeace, nonostante l’opposizione al nuclare, si impegna in guerre solo contro le aziende francesi, come Edf e Areva.
Secondo Greenpeace, infatti, il nucleare non assicura l’indipendenza energetica della Francia a causa dell’importazione di uranio e gas, indispensabili al funzionamento degli impianti. Tralascia, però, che la produzione di energia rinnovabile (come l’eolica) richiede al Paese di importare in ogni caso materiale dall’estero, come il neodyme dalla Cina.
La sua estrazione è altamente inquinante, tanto che il lago Baotou, una delle zone dove si estrae tra Cina e Mongolia, è uno dei più inquinati al Mondo. Greenpeace non si occupa, peraltro, di difendere le condizioni disumane in cui vivono gli operai del settore estrattivo in Cina, dove il Daily mail ha documentato una contaminazione e un tasso di cancro e osteoporosi anormalmente elevata.
Tralaltro, Greenpeace possiede interessi economici nel business energetico, attraverso la propria struttura tedesca Greenpeace Energy. Questa teoria evidenziata dall’autore sembra essere stata anche confessata da Greenpeace. La paura dell’Ong è che il fondo europeo in favore del nucleare possa spingere altri Paesi, come la Gran Bretagna, a tentare di ottenere aiuti per l’installazione di altre centrali. Insomma, il sostegno finanziario al nucleare potrebbe rendere meno cara l’energia atomica, con conseguenze sfavorevoli per i produttori delle rinnovabili. Greenpeace critica tutto ciò, omettendo di dire che se sino a ora ci sono state distorsioni di mercato, ciò si è verificato sempre in favore dei produttori di energia verde. In sintesi attraverso la lotta al nucleare, Greenpeace tutela gli interessi economici della propria cooperativa Greenpeace Energy, azienda che sarebbe danneggiata da un’implementazione degli investimenti statali in favore dell’atomica civile.
Apparirà chiaro, dopo essersi soffermati su tutti i legami tra cooperative, lobby, e aziende collegate a Greenpeace, che questa utilizza da anni le informazioni di cui viene in possesso con disinvoltura e spesso in modo parziale o fuorviante. Il caso della guerra dell’informazione perpetrata da Greenpeace, verso cui Gagliano, alla fine del testo, propone delle possibili soluzioni, è l’emblema dell’importanza delle informazioni nella società attuale, e della preponderanza, ossimorica eppure reale, del più debole sul più forte.
BIOGRAFIA AUTORE
Presidente Centro Studi Strategici Carlo De Cristoforis -Gagliano Giuseppe
Gagliano Giuseppe (Como, 20 marzo 1969) è un filosofo della politica e uno studioso di intelligence economica e geopolitica conosciuto a livello nazionale e internazionale per le sue pubblicazioni. È Presidente e fondatore del Centro Studi Strategici Carlo de Cristoforis