Quando si parla di Olocausto il pensiero di molti, se non di tutti, va ai campi di sterminio che costellavano tutta la Mitteleuropa, con particolare enfasi su alcuni, tra i quali senz’altro spicca il Vernichtungslager per eccellenza, Auschwitz-Birkenau. Tale processo mentale è tanto radicato che, nel pensiero comune, le peggiori efferatezze del nazismo figurano come essere state compiute in Polonia, anche se questa percezione è superficiale e, ad una più attenta analisi, errata. Se Birkenau è stata, senza dubbio, la più vasta e organizzata struttura di sterminio nazista, in cui per le sue dimensioni e la sua collaudata “efficienza” venivano convogliati i deportati da tutte le parti d’Europa, va ricordato che gli orrori dell’Olocausto sono avvenuti ovunque, nelle centinaia di campi più o meno grandi allestiti dai nazisti in tutta l’area sotto il dominio del Terzo Reich. Senz’altro Birkenau è il Simbolo per eccellenza dello sterminio, ma la realtà era molto più frammentata e merita di essere conosciuta nelle sue diverse declinazioni.
Esiste, inoltre, un altro fattore che ha contribuito ad alterare, negli anni del dopoguerra fino ad oggi, la nostra percezione e la nostra geografia dell’Olocausto, vale a dire la ridefinizione dei confini nazionali che spesso induce confusione ad una lettura superficiale della storia: i confini attuali ci portano a definire una popolazione come polacca, ucraina, romena e così via, perché quella determinata località si trova oggi in Polonia, Ucraina, o Romania; ma la storia di quella determinata popolazione, e segnatamente di quella parte d’Europa, va approfondita alla luce di quelli che furono i confini nel passato, non di quelli odierni.
La zona geografica che va approssimativamente da Cracovia all’attuale Moldavia, e che comprende città come Leopoli (L’viv, Lemberg), Cernivci (Chernowitz), Ternopil, cioè tutta la fascia transcarpatica che giunge fino alle pianure del Dniestr, era chiamata Galizia (Orientale, per distinguerla dall’omonima regione spagnola), ed era parte dell’Impero Austroungarico. La Galizia comprendeva quindi una piccola parte di Polonia, la parte occidentale dell’odierna Ucraina, una parte della Romania e una parte dell’odierna Moldavia (estendendosi alla Bucovina e alla Bessarabia). In questa regione vivevano popolazioni molto diverse, polacchi, svevi, ucraini (ruteni), armeni, rom, più popolazioni carpatiche autoctone di origine più antica, come huzuli e boyko, e così via. E tantissimi ebrei, sia nelle città, sia nei numerosissimi Shtetl distribuiti su tutto il territorio. Nella fascia geografica che grosso modo procedeva dalla Lettonia alla Moldavia, di cui la Galizia era una parte, si era nel tempo raccolta una cospicua popolazione di origine ebraica che, da una parte, era stata spinta verso est dalle discriminazioni secolari a cui era stata sottoposta nella Mitteleuropa luterana, e dall’altra veniva contenuta da est e parzialmente respinta dall’Impero Russo che non ne permetteva l’ingresso. Così, nel tempo, in quella fascia la popolazione ebraica si era fatta sempre più numerosa, in particolare nella zona governata dall’Impero Austriaco che, tra i tanti, mostrava, nei loro confronti, un atteggiamento meno discriminatorio (per lo meno a livello governativo; per quanto riguarda i vari gruppi etnici, alcuni di loro già nell’800 avevano avuto modo di esprimere malcontenti e pregiudizi antisemiti, se pur al momento poco influenti a livello politico). Tutta la regione venne smembrata dopo il 1918, e le sue parti vennero suddivise tra Polonia, Russia, Romania.
Quando si parla di “numeri” dell’Olocausto, si tende a pensare alle persone che sono state sterminate nei campi, ma non basta. La popolazione ebraica della Galizia venne completamente sterminata (salvo alcuni che erano riusciti ad andarsene precedentemente, di cui parlerò in altra occasione), ma solo una parte di essa fu deportata e successivamente uccisa nei campi: durante l’Operazione Barbarossa le Einsatzgruppe naziste rastrellavano gli Shtetl fucilando la popolazione in esecuzioni sommarie e seppellendo le vittime in fosse comuni il cui numero è talmente ampio che ancora non lo si conosce con esattezza. Solo dalle grandi città gli ebrei venivano deportati principalmente verso i tre campi di frontiera allestiti dai nazisti allo scopo: Belzec, Majdanek, Sobibor. Il motivo è semplice: nelle grandi e dispersive pianure ucraine non era conveniente – e spesso non possibile – organizzare dei trasporti efficienti verso i campi situati in territorio polacco. Nelle campagne famiglie intere venivano uccise lì, dove si trovavano.
Un giovane scrittore, discendente diretto di sopravvissuti alla cancellazione di uno Shtetl ucraino, ha, di recente, dischiuso ciò che l’occidente aveva ignorato, o di cui non si era reso conto: Jonathan Safran-Foer, con il suo bellissimo “Everything is illuminated”, ha descritto il massacro dello Shtetl di Trochenbrod (Trachimbrod, in altra dizione), disvelando anche, forse per la prima volta, la pesante eredità del collaborazionismo locale nelle responsabilità degli stermini. In quella che oggi è Ucraina ci furono migliaia di Trochenbrod.
E qui giungiamo ad un altro punto dolente che ha alterato la nostra percezione dell’Olocausto. Dopo la fine della guerra, sia il regime stalinista prima, che i successivi governi, russo prima, nazionali poi, come quello ucraino, per vari motivi non hanno collaborato a rendere noti i siti e i numeri dei massacri. Anche per quei massacri che non sono stati occultati, i russi hanno sempre indicato le vittime come genericamente “russe”, senza specificare la loro appartenenza alla comunità ebraica. Popolo russo vittima di guerra. Di molti di questi massacri si è avuta contezza solo in tempi recenti.
A chi scrive non sta stabilire il perché ciò sia accaduto, ma solo il far presente che è andata così. Fino a che, però, i tempi sono stati maturi – e pare che oggi lo siano – affinché la storia possa essere indagata e conosciuta nella sua interezza.
I massacri sommari ed indiscriminati compiuti dai nazisti, spesso con la collaborazione di gruppi nazionalisti locali, comunque, non impedirono la costruzione, anche in quel territorio, di campi di concentramento e di lavoro-morte, molto meno conosciuti, tra i quali il campo di Vapniarca (o Vapniarka).
Vapniarka nacque come campo di lavoro in cui deportare principalmente gli ebrei di Bucovina, il cui capoluogo era Cernivci-Chernowitz (secondo la dicitura in lingua tedesca).
Nel campo di Vapniarka i prigionieri venivano nutriti con pane e zuppe a base di un legume che non è adatto all’alimentazione umana, la cicerchia (Lathyrus sativus). Lathyrus sativus contiene alcune sostanze neurotossiche, tra cui un aminoacido non proteico conosciuto con l’acronimo di beta-ODAP (acido ossalildiamminopropionico). La tossicità delle cicerchie viene definita neurolatirismo e il danno provocato dalla tossina è irreversibile (paralisi progressiva ed irreversibile degli arti inferiori con degenerazione neuromuscolare e conseguente paralisi). Il danno è proporzionale alla quantità ingerita e alla durata nel tempo della somministrazione, ed è particolarmente incisivo in soggetti che non assumono alimenti di origine animale (i quali possono ritardare il danno avendo effetto neuroprotettivo).
Il risultato fu che tutti gli internati, in breve tempo, svilupparono una paralisi più o meno marcata da neurolatirismo.
“Stories abound about the medical abuses that have come to define medicine and the “pseudo”-neurosciences in the Third Reich. Well known are the Nazi program of euthanasia and the neuroscientific publications that arose from it. Nevertheless, during this widespread perversion of medical practice and science, true medical heroics persisted, even in the concentration camps. In December 1942, inmates of Camp Vapniarka began experiencing painful lower extremity muscle cramps, spastic paraparesis, and urinary incontinence. In order to reduce the cost of feeding the 1200, mostly Jewish, inmates of Camp Vapniarka and surreptitiously hasten their deaths, the Nazi-affiliated Romanian officers of the camp had begun feeding them a diet high in Lathyrus sativus. L. sativus is the neurotoxin implicated in neurolathyrism, a degenerative disease of the upper motor neurons. Dr. Arthur Kessler, one of the camp’s prisoners, eventually identified the source of the epidemic. Armed with this knowledge, the inmates collectively organized to halt its spread.” (Neurolathyrism in vapniarka: medical heroism in a concentration Camp.
Garfinkle J1, Andermann F, Shevell MI., in Can J Neurol Sci. 2011 Nov;38(6):839-44).
Non sta a chi scrive stabilire se i nazisti del campo di Vapniarka fossero o meno consapevoli delle potenzialità tossiche della pianta in questione (e quindi se abbiano volontariamente usato gli internati come cavie umane), o se piuttosto la loro non sia stata una scoperta casuale; il pensiero di chi scrive va alla fiorente comunità ebraica di Chernowitz, al fervore culturale che essa riuscì a produrre, all’enorme potenziale intellettuale e politico che essa esprimeva, prima di finire totalmente dissolta nella peggiore atrocità che l’uomo avesse mai potuto concepire.