…Il traditore non sembra un traditore. Parla una lingua che è familiare alle sue vittime e usa il loro volto e le loro vesti. (…) Fa marcire il cuore di una nazione (…) infetta il corpo politico in modo inesorabile. (…) Il traditore è la peste.
Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.) sul Tradimento
È stata una settimana movimentata e molti altri argomenti avrebbero potuto essere oggetto di questo editoriale, come ad esempio la decisione della corte del Distretto centrale di annullare le confessioni estorte sotto tortura ai sospettati di aver appiccato il rogo nel villaggio di Duma; o l’inefficace risposta dell’Idf alle continue violenze provenienti da Gaza; oppure l’imminente “accordo definitivo”, che, stando a quel che si dice, sarà presto proposto dall’amministrazione Trump.
Impatto tettonico
Ho scelto, tuttavia, di occuparmi dell’annuncio dell’arresto avvenuto lunedì 18 giugno dell’ex ministro Gonen Segev perché sospettato di essere una spia per l’Iran e accusato di tradimento per “spionaggio, collaborazionismo con il nemico in tempo di guerra e trasmissione di informazioni al nemico”.
Le motivazioni di tale scelta sono personali e sostanziali: personali, perché avendo io conosciuto Segev, in passato mi ero accorto dei suoi gravi difetti caratteriali; e sostanziali, a causa dell’impatto tettonico (seppur raramente riconosciuto) che tali difetti sortirono sulla nazione sin da allora.
Ovviamente, questi non sono i primi problemi che l’ex ministro ha avuto con la legge, né questa è la prima volta che lui infanga l’edificio politico del paese.
I lettori ricorderanno che nel 2004, Segev fu arrestato con l’accusa di traffico di stupefacenti – oltre che per frode con carte di credito e utilizzo di passaporto diplomatico con una data di scadenza falsificata – e successivamente condannato e incarcerato per diversi anni. Una volta tornato in libertà, Segev si trasferì in Nigeria, dove, a quanto pare, avviò i primi contatti con i funzionari iraniani – e dove iniziarono le sue presunte attività di spionaggio.
Naturalmente, non è ancora chiara l’entità dei danni causati dal presunto tradimento di Segev al suo paese. Tuttavia, non ci sono dubbi sull’enorme danno che il suo tradimento verso gli elettori causò 26 anni fa alla nazione – quando egli attraversò le linee di divisione ideologiche, accantonò le sue promesse elettorali e agevolò la ratifica degli accordi di Oslo.
Segev e Oslo: I paralleli etici
Perciò, fino a lunedì 18 giugno, noi tutti sapevamo che gli accordi di Oslo, i quali:
- conferirono il plauso internazionale all’arci-assassino Arafat;
- costarono la vita a migliaia di israeliani, e a molti di più le membra;
- fornirono alle bande giudeocide l’accesso ad esplosivi militari; e
- permisero alle milizie armate terroriste di sfondare le linee della capitale della nostra nazione,
dovevano la loro esistenza a un narcotrafficante condannato che ha tradito i suoi elettori, i quali lo avevano mandato alla Knesset per scongiurare proprio quella politica che lui consentì di attuare.
Ma dal 18 giugno, noi sappiamo che questi terribili accordi, che portarono tanta morte e distruzione nelle strade, sugli autobus e nei caffè all’aperto israeliani furono in parte dovuti non solo a qualcuno che spacciava droga e che tradì i suoi elettori, ma che, a quanto pare, ha tradito il suo paese e il suo popolo, nel vero senso della parola.
Ci sono numerosi parallelismi tra Gonen Segev e Oslo. In effetti, per molti aspetti, Segev e il processo di Oslo sono il riflesso morale (o piuttosto “immorale”) l’uno dell’altro.
Se lo stesso Segev rappresenta un marchio di vergogna sulla vita pubblica israeliana e un’eccezione in termini di inganno e falsità, così anche gli accordi di Oslo rappresentano un marchio di vergogna sulla nostra storia nazionale, un reprensibile nadir di promesse non mantenute, di inganno pubblico e di illusione.
Quasi come gemelli siamesi
Inoltre, per molti aspetti, quasi come gemelli siamesi, Segev e il processo di Oslo non esisterebbero l’uno senza l’altro, senza la simbiosi essenziale esistente tra loro. Dopotutto, senza Segev e la sua disinibita propensione al tradimento non ci sarebbero stati gli accordi di Oslo. Allo stesso modo, senza gli accordi di Oslo e i desideri disperati di chi li ideò, non ci sarebbe stato alcun Segev a ricoprire un incarico ministeriale, che gli permise di avere accesso alle informazioni che avrebbe fornito al nemico.
Proprio come il processo di Oslo abbracciò i nemici acerrimi, così ha fatto Segev.
Addirittura, in larga misura, Oslo fu un punto di inflessione nella storia del sionismo, dopo il quale nulla è stato più come prima. Tutto ciò che un tempo era una virtù sacra (come l’attaccamento alla madrepatria e gli insediamenti ebraici proattivi ovunque) è diventato un vizio odioso.
Così, anche Segev, in larga misura è diventato un punto di inflessione negli annali della politica israeliana, un punto al di là del quale il senso di vergogna è scomparso come un vincolo per il comportamento dei titolari di cariche pubbliche elettive, e oltre il quale la “prostituzione” della professione politica diventa accettabile, e perfino prevedibile. Le promesse politiche sono diventate inutili e l’impegno al rispetto dei principi ideologici non è nient’altro che merce di scambio da utilizzare se e quando si rileva una opportunità più vantaggiosa a livello personale.
La sfrenata ambizione individuale è diventata il valore supremo, che ignora ogni ostacolo che ne intralcia il perseguimento e lascia cadere ogni inibizione morale che ne possa impedire la realizzazione.
I letali derivati di Oslo
Prima ho affermato che il tradimento di Segev ha avuto un impatto “tettonico” sugli eventi che si sono successivamente verificati. Consentitemi di circostanziare – e corroborare – questo biasimo apparentemente profondo.
In ultima analisi, il processo di Oslo non fu un disastro a sé stante. Al contrario – fu il preludio di successivi disastri, che inevitabilmente scaturirono dalla sua attuazione.
In larga misura, Segev fu il loro ostetrico, il loro facilitatore indispensabile. Perché, come accennato, il processo di Oslo deve la sua nascita a Segev, che chiaramente aveva il potere di impedirlo, decidendo piuttosto di fare il contrario.
Pertanto, proprio come senza Segev non ci sarebbe stato il processo di Oslo, così senza Oslo non ci sarebbe stata la seconda Intifada, non ci sarebbe stato il Disimpegno israeliano, non ci sarebbe stato lo sradicamento delle comunità ebraiche a Gush Katif, non ci sarebbe stata l’acquisizione di Gaza da parte di Hamas, non ci sarebbero stati i tunnel del terrore, né gli arsenali con i temibili razzi lanciati in direzione delle città e dei villaggi israeliani molto distanti da Gaza.
Tutto questo, e altro ancora, è stato incontestabilmente il frutto deleterio di Oslo; ogni cosa, oggettivamente, è stata il derivato letale di quella infame e ignominiosa iniziativa, tutto questo è stato il frutto pestilenziale della perfidia di Segev.
Ma al di là della serie cruenta di fallimenti che gli accordi di Oslo agevolati da Segev inaugurarono, ci fu un effetto degenerativo molto più profondo – e sinistro – che iniziò ad affliggere la sostanza del pensiero sionista. Per una volta che il processo di Oslo aveva iniziato a dominare il palcoscenico politico in Israele, il suo continuo sostegno richiese un cambio di rotta in quello che fino ad allora aveva caratterizzato l’atteggiamento del sionismo nei confronti dei nemici di Israele. Se nell’era pre-Oslo si poneva l’accento su una forte e intransigente capacità di deterrenza, nell’era post-Oslo tutto questo cambiò, perché la persistenza di questa linea strategica avrebbe comportato la rapida scomparsa dell’iniziativa. Piuttosto, la leadership politica optò per l’appeasement e l’indulgenza verso gli eccessi del nemico e le violazioni degli impegni.
Le conseguenze di questo cambiamento concettuale tettonico noi le vediamo oggi nei furiosi incendi, nei campi bruciati e nelle foreste carbonizzate delle aree circostanti Gaza.
Una prospettiva personale
Ho incontrato per la prima volta Gonen Segev, all’inizio del 1992, quando ero segretario generale del movimento TZOMET. Apparve dal nulla, dopo anni durante i quali non era stato visto partecipare a nessuna attività del movimento, per contendersi il secondo posto nella lista dello TZOMET per la Knesset. (Per i lettori la cui memoria politica non risale a 26 anni fa, TZOMET era un partito non ortodosso e intransigente, che si opponeva con veemenza al concetto di “terra in cambio di pace”, su cui si basavano gli accordi di Oslo.)
In molti – compreso il presidente dello TZOMET, l’ex capo di Stato maggiore dell’Idf Rafael («Raful») Eitan – pensavano che lui fosse “il sale della terra”, un giovane uomo robusto e di bell’aspetto, un vero israeliano, con una laurea in medicina e un’esperienza comprovata nell’Idf, che era carismatico e affascinante. Molti – e a quanto pare lo stesso Raful – furono fuorviati dal suo fascino ingannevole, che finì per portare alla fine del movimento in cui essi avevano riposto la loro fiducia e al declino del sostegno pubblico ai principi in cui credevano.
Allo stesso modo, molti – tra cui l’ex capo di Stato maggiore Yitzhak Rabin – consideravano gli accordi di Oslo una iniziativa innovativa e stimolante, un colpo da maestro di lungimirante saggezza politica, che inaugurarono una nuova era di pace e prosperità regionale, in un “Nuovo Medio Oriente” simile all’Unione Europea, che andava dal Kuwait a Casablanca, dalle pendici dell’Atlante fino alle coste del Golfo Persico.
Come Segev, così Oslo. Molti – tra cui anche Rabin – furono vittime del suo ingannevole fascino (o meglio, del suo sinistro fascino) e si lasciarono fuorviare – sino alla disintegrazione della loro “nobile” visione.
Un bugiardo compulsivo che mentendo si è messo in cattiva luce
Per concludere, consentitemi un guizzo di modestia e un breve epilogo personale.
Al contrario di molti, io non mi feci ingannare dalle astuzie di Segev. Capii rapidamente che era un bugiardo compulsivo, che “mentendo si metteva in cattiva luce”. A riprova di ciò, quando fu eletto – con l’appoggio di Raful – attestandosi al secondo posto nella lista dello TZOMET, in luogo del compianto Yoash Tsiddon, uno dei parlamentari più eminenti che la Knesset abbia mai avuto, io ritirai il mio nome come candidato per ricoprire altri incarichi e mi dimisi da segretario generale.
Il resto è storia – e a volte mi chiedo come sarebbe stata diversa questa storia se altri avessero seguito il mio esempio.
Traduzione in italiano di Angelita La Spada
Qui l’articolo originale in lingua inglese