«Con amici simili chi ha bisogno di nemici?», viene da chiedersi, con Charlotte Brontë, leggendo la recente «lettera» di Piero Fassino a Repubblica sul conflitto arabo-israeliano. È raro trovare, tra i presunti sostenitori dello Stato ebraico, un simile florilegio di luoghi comuni, tesi grossolane e banalità di vario genere.
L’ex sindaco di Torino non perde tempo, inizia con impeto: «Netanyahu ha enormi responsabilità non solo per quel che accade oggi, ma per aver impedito la realizzazione degli Accordi di Oslo e Washington».
Il leader israeliano, in realtà, non è stato l’affossatore dei disastrosi Accordi di Oslo che, ricordiamolo, sconvolsero la Knesset, poiché iniziarono con colloqui segreti, dato che simili trattative erano proibite, tra il governo laburista e i terroristi dell’OLP, bensì un suo alacre esecutore.
Basti pensare che, nel 1998, il primo governo Netanyahu approvò il Wye River Memorandum, un documento integrativo ai suddetti Accordi, con cui si predisponeva il trasferimento di ampi territori della cosiddetta Cisgiordania all’amministrazione «palestinese» e la suddivisione di Hebron, culla dell’ebraismo, in due settori: l’H1, ossia l’80 per cento della città, posto sotto la tutela dell’Autorità Nazionale Palestinese, e il settore H2, una stretta via adiacente alla Tomba dei Patriarchi, sotto controllo israeliano.
L’ex dissidente sovietico e ministro d’Israele, Natan Sharansky, nel suo libro intitolato In difesa della democrazia, un testo che Fassino non deve aver letto, scrive:
«Netanyahu, il cosiddetto primo ministro “di destra”, indusse la stragrande maggioranza dei membri della Knesset ad accettare il trasferimento di Hebron sotto il controllo dell’ANP, una mossa che segnò una svolta epocale delle posizioni israeliane, soltanto un anno dopo che il Paese aveva conosciuto uno degli eventi più traumatici e tragici della storia: l’assassinio di Yitzhak Rabin».
Dunque, Netanyahu non è responsabile di alcun «impedimento» al «processo di pace» millantato dalla leadership laburista, che altro non fece se non farsi beffare da Arafat, un capataz sanguinario che non ebbe mai a cuore né la pace con lo Stato ebraico né il miglioramento delle condizioni di vita dei palestinesi.
Subito dopo la ratifica degli Accordi, nel 1994, l’allora capo dell’OLP pronunciò un discorso in una moschea di Johannesburg dove, richiamando la vicenda di Maometto e della tribù dei Quraysh, spiegò che stava utilizzando gli Accordi per rafforzarsi e preparare al meglio una nuova jihad, che puntualmente si scatenò su Israele.
Fassino, non pago del precedente scivolone, rincara la dose affermando che Netanyahu avrebbe «autorizzato continui insediamenti in Cisgiordania». Su queste pagine abbiamo, a più riprese, spiegato come non esistano legittimi impedimenti all’edificazione di nuovi abitati in Giudea e Samaria. Quello degli «insediamenti illegali» è un mito che non regge a una disamina approfondita. Una leggenda nera i cui ragionamenti capziosi hanno come obiettivo la delegittimazione di Israele nel suo complesso. Una narrazione falsa, a cui l’ex sindaco si accoda manifestando una scarsa, se non nulla, conoscenza dei fatti.
La Cisgiordania, infatti, secondo il diritto internazionale, precisamente sulla base del principio dell’«uti possidetis», appartiene a Israele, in quanto legittimo successore del Mandato per la Palestina del 1922. Ma, per 19 anni, tra il 1948 e il 1967, fu occupata illegalmente dalla Giordania senza che mai Israele rinunciasse alla sua piena sovranità. Inoltre, nel 1967, la Giordania aggredì militarmente Israele, che poi la sconfisse e riconquistò i suddetti territori. La disputa territoriale è andata avanti fino al 1994 con la firma del trattato di pace tra i due Paesi.
È bene anche precisare che la maggior parte dei presunti «insediamenti illegali» sono stati costruiti tra il il 1967 e il 1993, anche sotto governi laburisti. Inoltre, dal 1993 al 2004 circa, i nuovi insediamenti sono stati solo nove. Negli anni successivi, la situazione non è cambiata.
Addirittura, Netanyahu, viene criticato per aver proclamato «Gerusalemme capitale indivisibile di Israele». Un errore grave, dato che la Legge Base su Gerusalemme capitale «unica e indivisibile» venne approvata dalla Knesset nel lontano 1980.
Fassino, tra le altre cose, ci tiene a informarci che lui è da sempre impegnato «a sostegno della soluzione due popoli/due Stati». Bisognerebbe dirgli, innanzitutto, che non esiste un «popolo palestinese». I cosiddetti «palestinesi» sono arabi, e questi hanno già ottenuto un loro Stato in quell’area geografica, ovverosia la Giordania. In seguito, sarebbe necessario fargli notare che tutte le proposte di spartizione e pacificazione sono state rigettate dagli arabi di Palestina, il cui obiettivo dichiarato era, e tuttora rimane, lo sterminio di tutti gli ebrei, come dimostra la concordanza ideologica tra alleanza nazionalisti arabo-islamici e nazisti.
In seguito, nella sua lettera, abbandonato il periglioso terreno storico-giuridico, si getta sulla situazione umanitaria a Gaza, dove le azioni di Netanyahu avrebbero «mietuto un numero enorme di vittime». Nientemeno.
Il premier israeliano «miete vittime», è assetato di sangue, come vuole un certo stereotipo antisemita. Qui, Fassino mente sfacciatamente. Le operazioni militari dell’IDF, vista la densità abitativa di Gaza, hanno causato pochissime vittime civili, come riconosciuto anche da un eminente intellettuale di sinistra, Michael Walzer.
Persino assumendo per vere la cifre sulle vittime fornite da Hamas, che riferiscono 28.000 morti complessivi, senza distinguere tra civili e terroristi, si rileva un tasso di vittime civili tra i più bassi di sempre.
Ma al Nostro non interessa la realtà, conta solo la finzione, da far entrare nei crani refrattari ripetendola senza sosta. Leggiamo ancora: «Quel che contesto è l’equivalenza diffusa tra la politica di Netanyahu e Israele. Un’equivalenza che nega il carattere democratico dello Stato ebraico». Certo, Netanyahu non è Israele e viceversa, ma perché non dire che la maggioranza degli israeliani sostiene l’attuale primo ministro?
Netanyahu è un leader pienamente democratico, che rispetta il pluralismo dell’informazione, l’opposizione parlamentare, la separazione dei poteri e la laicità dello Stato. Alla carica di primo ministro vi è sempre giunto attraverso libere elezioni.
Dopo aver sottolineato gli elementi socialisti presenti nel movimento sionista, sottacendo la presenza di un’importante corrente di destra, l’autore della «lettera» accusa nuovamente il Likud di aver «impedito» la «soluzione due popoli/due Stati».
Gli israeliani, diversamente da Fassino, non hanno dimenticato ciò che è avvenuto a partire dal fallimento del vertice di Camp David nel 2000. Arafat, dopo aver rifiutato il piano offertogli da Bill Clinton e Dennis Ross, che pure concedeva ai palestinesi quasi tutto ciò che essi pretendevano da anni, lanciò la Seconda Intifada, che costituì uno dei più grandi massacri di ebrei dalla fine della Seconda guerra mondiale.
L’elettorato israeliano ha ancora ben presente il furore apocalittico e mortifero dei membri dell’AP e di Hamas — quest’ultimi si distinguono dai primi solo per il colore della kefiah, come sottolineato dallo studioso Mordechai Kedar. Al culto della morte e alla celebrazione dell’odio antiebraico partecipò, allora come oggi, quasi tutta la società palestinese.
Se il cosiddetto «processo di pace» è fallito, la responsabilità non è di Netanyahu o della destra israeliana, ma della controparte araba. Quali sarebbero, dunque, le «ragioni legittime» dei palestinesi evocate al termine della lettera? Quale accordo è possibile con chi, da settantasei anni, si nutre del più gretto odio antisemita? Fassino chiede una «Conferenza internazionale di pace», ma in quali occasioni simili consessi hanno riportato risultati concreti? Non pago degli errori presenti nella sua ricostruzione dei fatti, rincara la dose proponendo una soluzione fatua e scontata.
Fassino è un improbabile amico dello Stato d’Israele. Coi suoi argomenti, all’apparenza ragionevoli e ponderati, rischia di legittimare teoremi e narrazioni dell’antisionismo militante. Oggi, di fronte al dilagare della giudeofobia, abbiamo bisogno di una difesa granitica, ben informata e pugnace delle ragioni sioniste, non dei distinguo «politicamente corretti», delle strizzatine d’occhio all’ala «sinistra» del partito d’appartenenza, dei «se» e dei «ma» di «veltroniana» memoria.
La verità non è sempre «in medias res», per questo la difesa di Fassino risulta rachitica. Israele non ha bisogno di quelli che Piero Gobetti definiva «giudici conciliatori del moderatismo». La posta in gioco è troppo alta.