L’attuale sciopero della fame indetto da circa 1,187 prigionieri arabi-palestinesi detenuti nelle carceri israeliane – i quali chiedono telefoni pubblici nei reparti di sicurezza, l’aggiunta di una seconda visita mensile per parenti e congiunti, e il ripristino del programma di studi – è stato trasformato da Marwan Barghouti, il terrorista pluriomicida detenuto da ormai 15 anni, in una ghiotta occasione di strumentalizzazione politica.
Barghouti ha, nel campo del terrorismo di un pedigree di tutto rispetto essendo stato a capo durante la Seconda Intifada della Brigata dei Martiri di Al Aqsa, un’ala combattente e oltranzista di Fatah. A suo carico ci sono 21 capi di imputazione per omicidio che gli sono valsi ben cinque ergastoli. Ma per i fiancheggiatori del terrore, soprattutto in Occidente, i propugnatori della “lotta resistenziale” palestinese contro l’”oppressione sionista”, Barghouti è poco meno di un Silvio Pellico con il mitra anche se tuttora privo di Le Mie Prigioni. E’ però l’autore di un articolo recentemente ospitato dal New York Times, sempre prodigo di accoglienza nei confronti di chi è disposto a dipingere Israele come una distopia fascista. Nell’articolo egli si dipinge come martire della libertà, vessato e torturato dal potere usurpatore. Insomma il solito martirologio della vittimologia palestinese che manda in sollucchero i suoi estimatori, e qui in Italia soprattutto residualità maoiste e cheguevariste.
Per quindici anni Barghouti è rimasto completamente silente sulle condizioni dei prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, veri resort se paragonate alle carceri di qualsivoglia paese musulmano, mentre ora, improvvisamente prende la parola e manda un accorato appello al quotidiano liberal americano. Come mai? A cosa si deve questo risveglio? Presto detto.
Il protagonismo del terrorista è frutto di un game of thrones tutto interno a Fatah, dentro il quale, il vecchio padrino di Ramallah, Abu Mazen non vuole proprio saperne di preparargli il delfinato. Barghouti ha conservato un ruolo di prestigio nel Comitato Centrale del partito, ma trattasi di carica prettamente onoraria, un contentino, poiché Abu Mazen ha fatto in modo che i suoi sostenitori fossero tenuti fuori dalle posizioni che contano. Recentemente, durante l’avvicendamento dei quadri dirigenziali, Barghouti sperava che il Capo lo promuovesse a un rango superiore ma gli è stato fatto lo sgambetto, gli è stato infatti preferito Mahmoud al-Aloul.
Dunque eccolo in azione e impugnare le istanze dei prigionieri palestinesi, diventare il loro Mammasantissima, il patrono dei diritti umani (il più truffaldino accostamento semantico dei nostri tempi). Eccolo sul proscenio a rivendicare visibilità politica sperando in una massiccia mobilitazione, in un coro unanime che lo rappresenti come un Mandela palestinese a cui dovrebbe essere riconosciuta la statura che gli spetta. Tutto sta a vedere che adesione e successo avrà lo sciopero a cui, per il momento, avrebbe aderito il numero sopra riportato, non inclusivo, naturalmente, dei numerosi prigionieri che hanno deciso di non sottoscriverlo avendo annusato da lontano puzza di bruciato.
Nel “Giorno del Prigioniero”, Barghouti spera di lucrare bene, ma Israele ha ben chiaro il suo giochino. Sa benissimo che restare fermo sul rifiuto dei cahiers de doléances dei prigionieri spingerà ulteriormente il pluriterrorista nell’irrilevanza politica che gli spetta, mentre qualsiasi cedimento gli consentirebbe di accreditarsi presso la popolazione palestinese come un leader credibile degno di succedere ad Abu Mazen.