Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa lettera dal nostro lettore Luciano Armeli Iapichino, che racconta il suo viaggio in Israele e le sue impressioni in merito
Scrivere di Israele, in tempi di prese di posizioni trumpiane, controreazioni e boicottaggi, droni e aeri abbattuti, muri e frontiere incandescenti, sentenze planetarie di una discordia senza fine su Gerusalemme e i due Stati, potrebbe apparire di parte, controproducente o, ancor peggio, un déjà-vu tedioso e afono.
L’obiettivo di questo breve articolo, che racchiude parte di una breve esperienza vissuta nella terra di Canaan, vuole essere quello di fotografare ciò che realmente è stato “registrato” dopo circa due settimane a contatto con le culture locali.
Una sorta di sismogramma istantaneo nella terra dell’utopia, parafrasando lo scrittore Ari Shavit, per cercare di testare il più possibile le dicerie, nel bene e nel male, sulla terra del Padri.
Tutto ha avuto inizio all’aeroporto di Berlino-Tegel, al gate che imbarca per Tel Aviv, primo “avamposto” israeliano, in un certo senso, in cui l’aria è già apparsa carica di sensazioni contrapposte: una comprensibile e severa “pressione” dovuta ai controlli da parte delle autorità tedesche; un ultra ortodosso – verosimilmente della comunità haredi – cappello nero e barba lunga con famiglia al seguito, intento nel rigido rituale della dottrina;
una giovane e spensierata band di artisti musicali e una coppia d’israeliani seduti vicino alle nostre poltrone. Sicuro di non essere compreso unitamente al mio compagno di viaggio nei dialoghi in italiano gravidi d’interrogativi e incertezze su possibili inconvenienti della nostra avventura, sono stato subito smentito dalla signora israeliana seduta alla mia sinistra che, garbatamente e con un italiano fluente, ha voluto conversare sulla situazione sociale del Belpaese. Gigliola, il suo nome, era nata in Italia e a seguito delle leggi razziali era tornata ancora bambina in Israele, serbando comunque un forte legame con la nostra cultura. Abbiamo intrattenuto una lunga conservazione e argomentato sulle contraddizioni in Israele – il suo orientamento pareva confluire in una certa visione laica e di sinistra poco filogovernativa.
Le è stata regalata, a ricordo, la nostra Settimana enigmistica.
Giunti in Israele, dal finestrino dell’aereo, colpisce lo skyline di una giovanissima città, Tel Aviv: un suggestivo colpo d’occhio di una modernità che non ti aspetti.
L’Aeroporto Ben Gurion, possente, è un connubio ben riuscito tra futurismo e una Meraviglia del mondo antico. Uno Stato nello Stato, un andirivieni di culture planetarie, l’incontro nella più totale sicurezza tra Occidente e Oriente. L’IDF, la forza armata israeliana, sorveglia ogni anfratto di questa enclave che, nella calma delle rigorosissime procedure d’ingresso, annuncia ai visitatori l’incanto di questo Paese. Si è giunti in Israele.
Fuori da quest’ambiente, seguiti dagli occhi vigili dei soldati, succede quello che non ti aspetti o, forse, lo schiaffo imprevedibile a cui non sei abituato: quello di calura umida che sembra scoraggiare… ma solo per pochi istanti. È agosto!
Lungo la Highway 1, la moderna arteria autostradale che porta a Tel Aviv e che collega anche Gerusalemme, dal taxi s’intravede un paesaggio semi-desertico puntellato di check-point, palme e una routine abbastanza ordinata e tranquilla. La città è giovane: giovane nelle strutture, nell’aria, nelle strade, nelle spiagge. Il lunghissimo e abbastanza animato lungomare, che ricorda per certi aspetti lo stile di Miami, è attrezzato di frenetiche piste ciclabili alternate a curatissimi spazi verdi, lidi affollati e soprattutto una pacifica convivenza tra ebrei e arabi che lo stipano nelle piacevoli serate estive.
Certo, la storia non si dimentica e siccome quella di Israele appare “la storia di una vitalità contro tutto e tutti”, una lapide collocata nel cuore della movida estiva di Tel Aviv ne ricorda i salati tributi di sangue versato:
IN MEMORY OF INNOCENT CITIZENS
AMONG THEM MANY YOUGSTERS
WHOSE LIVES WERE CUT OFF BY MURDERES
IN A BLOODY TERROR ATTACK
ON FIDAY NIGHT 1. 6. 2001.
MAY THEY REST IN PEACE
La strage del Dolphinarium, una discoteca frequentata da giovani ebrei di origine russa, è stata una delle manifestazioni in cui l’animale umano ha partorito un’ignominia tra le più irrazionali della sua follia: ventuno giovani vittime stroncate da un kamikaze palestinese nell’indifferenza dell’Occidente. Soprattutto quello europeo. Ma la vita continua. Nello Stato paradossalmente più sicuro al mondo, dove il baratro sembra ogni giorno dietro l’angolo e il Tristo Mietitore, magari, partecipa ai conviti nelle giornate di Shabbat e non solo, consumando la Challah, la vita continua. Guai a fermarsi. E i giovani di Tel Aviv, adrenalinici, lo sanno. Anche a Jaffo, l’antico porto nei pressi della città, dominato dalla chiesa di San Pietro e dal vecchio faro tinto a strisce bianche e rosse, gravido di mercatini e ristoranti, nei fine settimana pullula di turisti che respirano la tranquilla convivenza di arabi ed ebrei, seduti nelle terrazze a ridosso dei pescherecci ormeggiati poco distanti e da cui si può ammirare con un solo colpo d’occhio lo straordinario skyline della città.
In una delle tante passeggiate, ci si sofferma a gustare il fritto di pesce cucinato al momento e consumato strada facendo da un cuoco d’eccezione ribattezzato fraternamente Pino l’arabo che, identificata immediatamente la nostra nazionalità, con simpatia inizia a enunciare i nomi delle nostre città: Napoli, Roma, Palermo …
La percezione, comunque, è quella di respirare il clima disteso di una città blindata – e i numerosi check-point poco distanti gli uni dagli altri lo confermano – dove, almeno in parte, si polverizzano tutti i pregiudizi costruiti nel tempo su Israele, la sua storia e la sua quotidianità. Tel Aviv, a nostro avviso, è l’esempio di una sintesi quasi perfetta di compatibilità pacifica di due popoli che hanno solo voglia, dalle spiagge sino alla city, di guardare la vita con le lenti della tranquillità.
Per Gerusalemme dove per atmosfera, colori e ulivi, il tempo sembra essersi fermato qualche millennio addietro, forse qualcosa muta. Muta nell’aria. Muta nell’anima. Muta con i brividi che scuotono la fede pulsante di chi la percorre. Muta per quel livello in più di tensione che abbiamo respirato. Una parola, comunque, su tutte appare essere la più indicata a descriverla, anche se necessariamente didascalica: sacra.
Sacra per gli ebrei. Sacra per i musulmani. Sacra per i cristiani. Intoccabile per tutti. Il primo impatto è stato quasi fuorviante: dalla fermata dei pullman sino all’ingresso della città vecchia e poi sino al cuore pulsante della fede, Muro del Pianto, Spianata delle Moschee, Via Dolorosa e Santo Sepolcro, è un brulicare di soldati e mitra. Sacralità e milizie. Un binomio antitetico. Ma necessario! Questa è Israele. È il prezzo salatissimo della fede, quello della sopravvivenza e, paradossalmente, dell’accoglienza. Senza entrare nel vortice senza tempo dei corsi e dei ricorsi storici, Israele combatte giornalmente – ed è innegabile – la sua guerra con un nemico invisibile che regolarmente, a sua volta, confeziona attacchi. Terribili. I numeri dello Shin Bet, inesistenti per il mondo, sono davvero impressionanti. E in questa indifferenza planetaria, Israele garantisce ai visitatori del pianeta una permanenza sicura, mirata alla ricerca della più intima spiritualità. Qualunque essa sia.
È terra di radici del resto. E le radici sopravvivono e si adattano nel buio del pregiudizio e nell’aridità degli sforzi, forse, solo strumentali delle diplomazie internazionali che irrompono pro domo sua sul piccolo Stato senza immaginare … senza approfondire … senza onestà… con presunzione!
La guerra di Israele è anzitutto, questa la nostra impressione, contro quel mondo cieco e sordo, privo di buon senso che si dipana a qualsiasi latitudine, compresa l’infima natura selvaggia dell’uomo, armato di stereotipi e pregiudizi e non solo di coltelli e autobombe, per il riconoscimento del desiderio di libertà del suo popolo e della sua sopravvivenza.
E stanco di essere demonizzato.
Mi piace chiudere questo pezzo con un’immagine offerta da Ari Shavit:
Se un vulcano dovesse eruttare questa notte e porre fine alla nostra Pompei, ecco quale sarebbe la nostra ultima immagine: un popolo vivo.
E la danza di questo popolo è quella di una vita vissuta sino all’estremo dinamismo, sino all’ultimo grado di intensità, per via di una musica diretta direttamente da una sinfonia biblica.