La grave crisi economica e sociale che si è abbattuta sull’Europa già a partire dai primi decenni del Trecento, per culminare con la diffusione della peste nel ‘47-’48 ed il conseguente drastico calo demografico, segnò anche una nuova e più cruenta tappa nella storia dell’antisemitismo che, come spiega Anna Foa, ha avuto “multiformi espressioni, religiose ( il cosiddetto antigiudaismo) e poi fisiche, razziali”. Per comprendere bene la portata di questa trasformazione, durante la quale vennero elaborati nell’immaginario collettivo gli stereotipi dell’ebreo “corruttore”, “avvelenatore” e “complottista”, in seguito ampiamente sfruttati dalla propaganda nazista con esiti tragicamente noti, è opportuno esaminare la condizione delle comunità ebraiche nei secoli del basso Medioevo.
Con lo sviluppo del sistema feudale, basato sul vassallaggio e la protezione, anche gli ebrei trovarono una loro collocazione, che però variava da paese a paese. Sia i Carlongi che gli Ottoni e gli Hohenstaufen avevano mantenuto rapporti con loro e avevano definito le regole di questa relazione non certo disinteressata, come poi vedremo. Nel 1182 l’ imperatore Federico I stabilì che il sovrano doveva proteggere anche i suoi sudditi non cristiani; in seguito Federico II, suo nipote, ordinò che gli ebrei appartenessero al fisco imperiale, sottraendoli così alla potestà vescovile. La formula precisa usata dagli imperatori germanici era “servi nostrae camerae”, ovvero “servi della Camera del re”: con questa precisavano i termini della protezione fornita agli ebrei ma allo stesso tempo si garantivano la possibilità di un pieno sfruttamento delle loro risorse economiche. Spettò poi a Tommaso d’Aquino elaborare il concetto di “proprietà” degli ebrei in chiave teologica: a causa del “deicidio” commesso, essi erano ormai condannati alla “perpetua servitù” nei confronti dei loro signori.
Questo “status” del tutto singolare, faceva sì che i signori feudali potessero disporre liberamente di tutte le ricchezze e beni degli ebrei, che diventarono presto una importante fonte di capitali per i bilanci sia reali che signorili, a maggior ragione se si pensa all’inefficienza dei sistemi fiscali del tempo. E così la pressione finanziaria su di loro “cresce fino a giungere a vere forme di espropriazione” (A. Foa).
Dalla metà del XIII secolo, questa politica di protezione tipicamente feudale inizia, però, ad essere abbandonata per varie ragioni, dando luogo alle prime sistematiche espulsioni delle comunità ebraiche, specificatamente dall’Inghilterra di Enrico III e dalla Francia di Filippo Augusto. L’epoca del potere universalistico imperiale stava, infatti, volgendo al suo tramonto, per lasciare emergere nuove e più efficaci strutture politiche quali le grandi monarchie nazionali, capaci di centralizzare il potere nonché di laicizzarlo, i Comuni e le Signorie dell’Italia centro-settentrionale. Ma cosa stava succedendo in quelle società, che portò i sovrani ad emettere i decreti di espulsione? Non c’è dubbio che l’emergere di ceti borghesi e mercantili rese sempre meno indispensabile la presenza degli ebrei come fonte di introiti per le casse dello stato monarchico, per cui i sovrani, sfruttando senza scrupoli le tradizionali accuse popolari nei loro confronti, prima confiscarono i loro beni e poi li cacciarono dai territori nazionali, anche se in seguito in alcuni casi ne accettarono il ritorno in cambio di cospicui pagamenti.
I sovrani, dunque, per consolidare il loro potere nei confronti delle potenti aristocrazie feudali scelsero di allearsi con i nuovi ceti borghesi, rendendo economicamente superflua la presenza dei vecchi “servi” di religione ebraica, che diventarono così bersaglio di un fuoco incrociato: da una parte le accuse di avvelenare i pozzi e profanare le ostie consacrate diffuse tra la popolazione dalla predicazione dei frati minori, dall’altra la nuova visione tipicamente borghese che li voleva dannosi all’economia e alla società.
In Germania non ci furono espulsioni, ma, dopo la morte di Federico II, iniziò un periodo di sanguinose persecuzioni che culminarono durante gli anni della peste e continuarono fino al XVI secolo; tra queste ricordiamo il massacro di Ratisbona nel 1298, dove il capo del “pogrom”, Rindfleisch, si rivolse direttamente ai cittadini invitandoli ad ammazzare gli ebrei per “rendere onore alla città”. L’assenza di un potere centrale forte permise anche il diffondersi di un movimento detto degli “assassini di ebrei”, i cui esponenti giravano per le città dell’Alsazia, della Svevia e della Franconia attaccando e razziando le comunità ebraiche.
Similmente, nella Francia del 1320, in seguito ad una pesante carestia ed una emigrazione interna, nacque un movimento con connotati di rivolta sociale incanalata, però, da monaci itineranti verso il fondamentalismo religioso; si produsse così una vera e propria crociata contro gli ebrei infedeli, detta “dei pastorelli”, che compì massacri di massa senza alcun intervento da parte dei poteri ufficiali.
La storia della Spagna, pur rappresentando un caso a sé stante, è particolarmente utile per la comprensione del passaggio dall’antigiudaismo su base religiosa all’antisemitismo su base etnica. Fino al XIII secolo le comunità ebraiche spagnole (gli storici stimano una presenza che varia da 150.000 a un massimo di 600.000 persone all’iniziò del Trecento) furono generalmente tollerate nei regni cristiani; ma la pacifica convivenza cominciò a vacillare nel XIV secolo, fino ad arrivare ai grandi massacri del 1391. Già nel 1242 i domenicani avevano ottenuto l’autorizzazione reale a svolgere attività di proselitismo fin dentro le sinagoghe, che produsse numerose conversioni, incentivate dall’abolizione di disposizioni negative sul piano economico per i neo-convertiti. Se all’inizio del Trecento la situazione era ancora basata su una convivenza relativamente pacifica, la rivolta dell’alta nobiltà castigliana contro Pietro I tra il 1366 e il 1369 destabilizzò fortemente la monarchia e il generale peggioramento delle condizioni di vita spinse contadini e borghesi su posizioni sempre più decisamente anti-ebraiche; fino a quando, nel 1391, su istigazione di un fanatico religioso, Ferrant Martinez, scoppiarono feroci tumulti che si scatenarono contro le comunità di Castiglia e Aragona. Durante i tumulti, spesso gli ebrei venivano costretti a scegliere tra la morte e la conversione mediante battesimo (conversos), una pratica che continuò anche in seguito quando il frate domenicano Vincenzo Ferrer, nel 1411, si fece promotore di una vasta campagna conversionistica. Ma, nonostante la conversione pubblica, i neo-cristiani continuavano ad essere guardati con sospetto (da qui la denominazione di “marrani”, impuri) e ad essere oggetto di odio vero e proprio quando arrivavano a ricoprire posizioni socio-economiche di prestigio.
Mentre nell’Alto Medioevo la conversione garantiva agli ebrei la piena accettazione nella società, grazie soprattutto alle direttive morali provenienti dalla Chiesa, ora il battesimo non era più sufficiente a salvarsi: i conversos restavano “impuri”, soprattutto se a giudicarli erano quei ceti borghesi che li vedevano come antagonisti pericolosi. È a questo punto che viene teorizzato il concetto di “limpieza de sangre”, il quale sembra sinistramente anticipare di ben cinque secoli il mito nazista della razza pura. Fu poi Carlo V, nel 1536, ad emanare una legge che impediva a tutti i neo-convertiti e ai loro discendenti l’accesso alle cariche istituzionali, militari ed ecclesiastiche; ed anche qui non è difficile stabilire un paragone con le famigerate leggi razziali del Novecento.
Nel 1492, dopo la conquista di Granada, Ferdinando e Isabella misero fuori legge la religione ebraica, ordinando l’espulsione di tutti gli ebrei dai due regni di Spagna e, successivamente, anche da Sicilia, Sardegna e da tutti i loro possedimenti. Restavano ancora da colpire i marrani; e infatti l’Inquisizione spagnola operò per circa tre secoli, fino alla sua definitiva abolizione nel 1834, condannando a pene di vario tipo circa 375.000 persone, di cui 35-45.000 al rogo, sempre in nome del principio palesemente razzista della “limpieza de sangre”.
Torniamo ora all’Europa della metà del XIV secolo, quella che aveva già visto le espulsioni degli ebrei da Francia e Inghilterra, la “crociata dei pastorelli” e i pogrom nelle città tedesche; un’ Europa, peraltro, la cui popolazione era in gran parte debilitata da anni di carestie e crisi della produzione cerealicola. Furono le galere genovesi provenienti da Oriente a portare il morbo della peste nei porti siciliani, tra il settembre 1347 e il gennaio 1348; da lì si diffuse rapidamente nel resto d’ Italia, in Provenza, Savoia e Catalogna, per poi proseguire la sua strada verso la Germania, i Paesi Bassi e finanche in Inghilterra. La popolazione venne presto decimata, soprattutto nei borghi e nelle città dove il contagio era più immediato; non esistevano cure e neppure spiegazioni di carattere scientifico che in qualche modo potessero ridurre il numero delle vittime. La morte nera colpiva interi nuclei familiari, i suoi effetti erano talmente devastanti e al tempo stesso incomprensibili che sin da subito venne intesa come castigo divino o opera del demonio, e quindi percepita come fenomeno in qualche modo di origine metafisica.
A questo punto, l’emergere nella coscienza collettiva di antiche paure e concezioni del tutto irrazionali portò a stabilire un terribile legame tra la natura demoniaca della pestilenza e gli ebrei quali strumenti materiali della sua diffusione.
I primi massacri di ebrei, in seguito a questa specifica accusa, avvennero a Tolone nel 1348, poco dopo a Barcellona e nelle altre città catalane. Si determinò la credenza che essi avessero organizzato un complotto contro la civiltà cristiana e che a capo di questo ci fosse un rabbino residente a Chambery, in Savoia, il quale inviava da quella centrale i suoi “untori” a spargere il morbo in giro per l’ Europa. La caccia ai diffusori della peste diventava anche un buon pretesto per accaparrarsi i loro beni; a Strasburgo, infatti, nel 1349 le autorità cittadine ordinarono la morte nel rogo per duemila ebrei, le cui proprietà vennero poi distribuite tra la popolazione.
Fu nel Delfinato francese, luglio 1348, che nacque l’accusa contro gli ebrei di avvelenare i pozzi e le fontane con il preciso scopo di diffondere la peste tra i cristiani. A Chatel, sul lago di Ginevra, il mercante ebreo Agimet fu costretto a confessare di aver sparso polveri avvelenate, fornitegli da un rabbino, in varie città italiane durante i suoi viaggi d’affari.
L’idea dell’ebreo avvelenatore si propagava con la stessa rapidità del contagio a cui veniva inesorabilmente associata e penetrava sempre più nella mentalità popolare, producendo massacri, torture e finti processi; nonostante per ben due volte papa Clemente VI avesse sostenuto la non colpevolezza degli ebrei, visto che essi morivano a causa della peste allo stesso modo dei cristiani.
Anche il movimento dei flagellanti, composto da vere e proprie bande di persone che pensavano di espiare le colpe dell’umanità attraverso penitenze e autoflagellazione, ben presto cominciò a scatenare una persecuzione contro gli ebrei. Nelle città della Germania e dei Paesi Bassi, con l’arrivo dei gruppi di flagellanti in pellegrinaggio, vennero ferocemente attaccate le comunità ebraiche, ritenute la causa principale della collera divina.
Ma qual è il punto di svolta che bisogna sottolineare in questa fase? Gli ebrei ormai non venivano più posti dinanzi alla scelta tra morte o conversione, perché l’eventuale battesimo non li avrebbe comunque salvati dal loro peccato originale (il deicidio e l’alleanza col demonio); di conseguenza andavano eliminati, in quanto etnicamente impuri e socialmente pericolosi.
L’ immagine dell’ebreo usuraio, creatura del demonio e avvelenatore diventa, allora, uno stereotipo che travalica l’aspetto essenzialmente religioso e si materializza nella costruzione di tratti somatici che assimilano gli ebrei al demonio. Gli ebrei sono raffigurati come esseri ripugnanti, hanno le corna, orecchie da maiale e il naso ricurvo, spesso compaiono insieme ad animali notturni e pericolosi; la sinagoga, che è il loro luogo simbolico per eccellenza, viene dipinta come una donna bendata con in mano una bandiera spezzata. Ormai la parola “ebreo” sta a denotare non più un individuo specifico ma una condizione antropologica colorata con tinte fosche: “si intendeva implicitamente un figlio del demonio, assassino, avvelenatore, falso, traditore, profanatore, canaglia, oltre che usuraio” (M. Ghiretti).
Ecco perché il Trecento, in particolare negli anni della peste, diventa un momento fondamentale e di non ritorno per l’ affermazione dello stereotipo antisemita: si stabilisce che l’ebreo non è tale per via delle sue credenze religiose ma per le sue caratteristiche fisiche (biologiche, avrebbero detto in seguito gli scienziati del darwinismo sociale da cui il nazismo attinse ampiamente). E di conseguenza, insieme alle immagini tradizionali (ebreo deicida ed usuraio), si rafforzano o prendono forma altre concezioni dai tratti allucinatori: l’ebreo è anche una assassino rituale di bambini cristiani il cui sangue viene adoperato nella produzione del pane azzimo; l’ebreo è un profanatore di ostie consacrate, come viene raffigurato – ce lo ricorda sempre Anna Foa – nella tavola di Paolo Uccello intitolata “Miracolo dell’ostia profanata”, conservata nel Palazzo Ducale di Urbino.
Il processo di evoluzione dell’antigiudaismo religioso verso il più “moderno” antisemitismo ha, dunque, compiuto un passo decisivo; per completarlo bisognerà attendere gli sviluppi della sociologia e dell’antropologia positiviste nell’Ottocento, che forniranno il quadro teorico per la nascita della pseudo-scienza delle razze ed il suo successivo affermarsi all’interno dei regimi totalitari novecenteschi, attraverso i deliranti manifesti degli scienziati razzisti, i laboratori sperimentali di eugenetica e i campi di sterminio.
Bibliografia essenziale:
Anna Foa, Ebrei in Europa, Bari 1992
Maurizio Ghiretti, Storia dell’ antigiudaismo e dell’ antisemitismo, Milano 2002
Carlo Ginzburg, Storia notturna, Torino 1989