Come Atena nacque dalla testa di Zeus, la fantastoria nacque dall’ideologia. Il nome “Palestina” deriva dai filistei, una popolazione originaria del Mediterraneo Orientale (forse dalla Grecia o da Creta) la quale invase la regione nell’undicesimo e dodicesimo secolo A.C. Parlavano una lingua simile al greco miceno. La zona nella quale si insediarono prese il nome di “Philistia”. Mille anni dopo, i Romani chiamarono la zona “Palestina”. Seicento anni dopo gli Arabi la ribattezzarono “Falastin”.
Per tutta la storia successiva non ci fu mai una nazione chiamata “Palestina” né ci fu mai un popolo chiamato “palestinese”. La regione passò dagli Omayyadi agli Abassidi, dagli Ayyumidi ai Fatimidi, dagli Ottomani agli Inglesi. Durante questo millennio il termine “Falastin” continuò a riferirsi a una regione dai contorni indeterminati e mai a un popolo originario.
Nel 1695, l’orientalista danese Hadrian Reland scoprì che nessuno degli insediamenti conosciuti aveva un nome arabo. La maggioranza dei nomi degli insediamenti erano infatti ebraici, greci o latini. Il territorio era praticamente disabitato e le poche città, (Gerusalemme, Safad, Jaffa, Tieberiade e Gaza) erano abitate in maggioranza da ebrei e cristiani. Esisteva una minoranza musulmana, prevalentemente di origine beduina, che abitava nell’interno.
Reland pubblicò a Utrecht, nel 1714, un libro dal titolo Palaestina ex monumentis veteribus illustrata, nel quale non vi è alcuna menzione o traccia di un popolo palestinese né di una eredità palestinese.
Dobbiamo avvicinarci ai nostri tempi, più precisamente al periodo in cui gli inglesi crearono, dopo la fine della Prima Guerra Mondiale e dell’impero ottomano la Palestina mandataria.
Il Medio Oriente così come lo conosciamo oggi, è in buona parte frutto della sua riorganizzazione britannica e francese. Nuovi confini, Stati rifondati. Siria, Giordania, Libano, Irak. La ragione “palestinese” venne presa in dotazione britannica. Molti arabi protestarono in modo acceso nei confronti di una “Palestina” separata dalla Siria. Gli arabi chiamavano la regione Balad esh sham (la provincia di Damasco) o Surya–al–Janubiya (Siria del sud). Per i nazionalisti arabi la Palestina non era altro che la Siria del sud. I siriani, ovviamente, non potevano che annuire. Il Congresso Generale Siriano del 1919 sottolineò con forza l’identità esclusivamente siriana degli arabi della “Siria del sud”, quella che gli inglesi chiamavano “Palestina”.
Nel suo libro del 1938, Il Risveglio Arabo, George Antonious, il padre della storiografia moderna araba, documenta il tumulto sorto tra gli arabi della “Grande Siria” e dell’Irak quando inondarono le strade delle città siriane e di Gerusalemme, per protestare contro la divisione geografica che gli inglesi, per ragioni geopolitiche, avevano imposto alla Siria. Antonious, come Reland prima di lui, non fa alcuna menzione di un “popolo palestinese”. Non poteva farlo appartendendo esso alla geografia fantastica.
Occorre fare un passo indietro. Nel 1920, la Francia conquista la Siria. E’ in questo periodo, durante il controllo francese del paese, che inizia a prendere forma l’idea di una “Palestina” come stato arabo-musulmano indipendente, e fu il Mufti di Gerusalemme, Amin-al-Husseini, la personalità di maggior spicco tra i leaders arabi dell’epoca, a creare un movimento nazionalista in opposizione all’immigrazione ebraica determinata dal movimento sionista. In altre parole, fu il sionismo a fare da levatrice al palestinismo nazionalista. Anche allora, tuttavia, nessuno parlava di un “popolo palestinese”.
Ancora nel 1946, Philip Hitti, uno dei più eloquenti portavoce della causa araba dichiarava al Comitato di Inchiesta Anglo-Americano che un’entità nazionale chiamata Palestina non esisteva.
Nel 1947, quando le Nazioni Unite stavano valutando la spartizione della Palestina mandataria in due stati separati, uno ebraico, l’altro arabo, numerosi politici e intellettuali arabi protestarono in modo acceso poiché sostenevano che la regione in questione fosse parte integrante della Siria del sud. Non c’era una popolazione “palestinese” in senso proprio, ed era dunque un’ingiustizia smembrare la Siria per creare una entità che di fatto le apparteneva di diritto.
Nel 1957, Akhmed Shukairi, l’ambasciatore saudita alle Nazioni Unite dichiarò che, “E’ conoscenza comune che la Palestina non è altro che la Siria del sud“. Concetto ribadito da Hafez-al-Assad nel 1974, “La Palestina non solo è parte della nostra nazione araba ma è una parte fondamentale del sud della Siria”.
Dal 1948 al 1967, i diciannove anni intercorsi tra la guerra di Indipendenza e la guerra dei Sei Giorni, la Giudea e la Samaria restarono sotto il dominio illegale giordano. Durante questo periodo nessuno dei leader arabi prese neanche lontanamente in esame il diritto all’autodeterminazione degli arabi “palestinesi” che si trovavano sotto il loro dominio. Perché? Ancora, perché un “popolo palestinese” per i giordani semplicemente non esisteva.
Persino Yasser Arafat fino al 1967 usò il termine “palestinesi”, unicamente come riferimento per gli arabi che vivevano sotto la sovranità israeliana o avevano deciso di non essere sottoposti ad essa. Nel 1964, per Arafat, la “Palestina”, non comprendeva né la Giudea e la Samaria né Gaza, le quali, infatti, dopo il 1948 ricadevano nella zona di influenza rispettivamente di Giordania e Egitto.
Lo troviamo scritto nella Carta fondante dell’OLP all’articolo 24, “L’OLP non esercita alcun diritto di sovranità sulla West Bank nel regno hashemita di Giordania, nella Striscia di Gaza e nell’area di Himmah”.
L’articolo 24 venne cambiato nel 1968 dopo la guerra dei Sei Giorni, dietro ispirazione sovietica. Ora la sovranità “palestinese” si estendeva anche alla Giudea e Samaria e a Gaza. Libero da possibili attriti con la Giordania e l’Egitto, Arafat, protetto dai russi, poteva allargare il campo della propria azione.
Per creare questa nuova realtà del “popolo palestinese”, priva di qualsiasi aggancio con il passato era necessario che il passato venisse interamente fabbricato, o meglio, come in Tlon, Uqbar, Orbis Tertius” di Jorge Luis Borges, bisognava fare in modo che il reale venisse risucchiato dalla finzione.
Ecco dunque apparire sul proscenio della storia i “palestinesi”, i quali fin da un tempo immemorabile avrebbero sempre vissuto nella regione e addirittura si potrebbero fare risalire ai gebusei o, a piacimento, ai cananei, con i quali non sussiste nessun rapporto genealogico. Questo popolo autoctono sarebbe stato poi cacciato dagli “invasori” sionisti.
Il 31 marzo del 1977, come fosse un colpo di scena in un romanzo giallo, Zahir Mushe’in, membro del Comitato Esecutivo dell’OLP dirà, durante un’intervista quello che chiunque abbia una minima conoscenza della storia e dei fatti, sa benissimo:
“Il popolo palestinese non esiste. La creazione di uno stato palestinese è solo un mezzo per continuare la nostra lotta contro lo stato di Israele in nome dell’unità araba. In realtà oggi non c’è alcuna differenza tra giordani, palestinesi, siriani e libanesi. Solo per ragioni tattiche e politiche parliamo dell’esistenza di un popolo palestinese, poiché gli interessi nazionali arabi richiedono la messa in campo dell’esistenza di un popolo palestinese per opporci al sionismo”.
Il “popolo palestinese” è una pura invenzione strategico-politica, la quale, con grande abilità propagandistica, è stata trasformata in un fatto che ormai appartiene a tutti gli effetti alla realtà.