L’Unione Europea ha approvato recentemente, la cosiddetta «nota interpretativa» alle linee guida, pubblicate ad aprile 2013, per l’etichettatura dei prodotti nei territori occupati da Israele fin dal 1967. Questo provvedimento era stato sollecitato fin da aprile 16 governi Ue, compresa l’Italia, e dovrebbe andare a completare il quadro normativo previsto dal Regolamento 1169/2011 per tutelare i consumatori permettendo una scelta consapevole dei prodotti acquistati.
L’etichettatura con l’indicazione d’origine, secondo le norme indicate, per i prodotti agricoli e per i cosmetici e a prima acchito si potrebbe pensare che la decisione sia un punto di svolta positivo per tutto il mercato ma la cosa che ha suscitato diverse perplessità, nonché delle feroci reazioni, è stata la sottolineatura ad hoc per le merci provenienti da Israele.
L’UE ha firmato degli accordi bilaterali, nel passato, con lo stato ebraico per favorire i commerci e creando un rapporto doganale di favore verso le merci provenienti dai suoi territori ma la stessa Unione riconosce i confini israeliani come quelli fissati nel 1967 ed esclude, così, tutte quelle zone, effettivamente sotto il controllo di Tel Aviv, ma che prendono il nome di territoti occupati, come la valle del Golan, la valle del Giordano e la Striscia di Gaza. Per i prodotti che provengono da queste terre è prevista, quindi, l’indicazione di provenienza da “insediamenti” e non più come “made in Israel”.
Questa differenziazione ha degli effetti non trascurabili per le esportazioni perché venendo meno l’indicazione di origine israeliana, in base all’accordo di associazione tra Israele e Unione europea, i prodotti nei Territori Occupati dal 1967 in Cisgiordania e nel Golan vengono esclusi dai benefici doganali obbligandoli al pagamento dei salati dazi doganali previsti dalla PAC a tutela delle produzioni continentali e il danno che questo potrebbe portare all’economia locale sarebbe piuttosto consistente, poiché l’UE rappresenta circa un quinto delle esportazioni dei prodotti provenienti dalle Colonie.
Se si guardassero i numeri, però, si potrebbe pensare che l’impatto reale delle nuove norme europee sarebbe assai ridotto nell’economia globale dell’export israeliano verso il Vecchio Continente, poiché questo vale circa 30 miliardi di Euro e il danno potenziale è quantificato in circa 50 milioni di Euro (su meno di 300 milioni di valore della produzione locale, però) ma quello che si nasconde dietro a un provvedimento siffatto ha tutto un altro valore, perlomeno a livello politico.
Le parole del premier Israeliano Netanyahu a proposito sono durissime e sottolineano la doppiezza che l’Unione ha mostrato nei confronti di Israele: “L’Unione europea dovrebbe vergognarsi. È una semplice distorsione della giustizia e della logica e credo che arrechi danno anche alla pace, non permette progressi al negoziato […] La radice del conflitto non è nei territori né negli insediamenti. Abbiamo una memoria storica di cosa accadde quando l’Europa etichettò i prodotti ebraici”.
La stoccata verso le leggi naziste è decisamente marcata e non a sproposito, infatti, come si desume dal resto dell’intervento: “Queste misure sono discriminanti per natura, è intollerabile che Israele sia l’unico Paese preso di mira da questa politica, nonostante il fatto che esistono oltre 200 territori contesi nel mondo”.
Sembra assurdo, infatti, che si sia voluto mettere l’accento sui prodotti provenienti dalle colonie ebraiche e non quelli provenienti dai territori contesi in altre situazioni similari, anche se mediaticamente meno conosciute. Non si capisce, infatti, perché accanirsi contro Israele e non, ad esempio, verso quella Cina che da decenni occupa una terra come il Tibet biasimando anche quegli stati che volessero riconoscere le ragioni del suo popolo e diano parola alla sua guida spirituale e politica, il Dalai Lama.
Forse le ragioni economiche valgono di più di quelle “umanitarie” che, invece, si continuano ad addurre verso quel popolo palestinese in realtà mai esistito prima della creazione dello stato d’Israele?
Anche queste ragioni “umanitarie” non è che derivino da mere questioni strategiche volte ad accontentare quei partner commerciali in Medio Oriente che, da sempre, si oppongono alla sopravvivenza di Israele?
Non è un caso che, prontamente, il dipartimento per gli Affari negoziali dell’Olp abbia dichiarato, tramite Twitter, che questo sia “Un passo nella giusta direzione ma non sufficiente, I prodotti di un crimine di guerra devono essere banditi, non semplicemente etichettati”
La risposta alle critiche proveniente dal Commissario europeo Valdis Dombrovskis sembra quasi una pezza su un incidente diplomatico che sembra sempre più la manifestazione legislativa di una posizione ideologica contraria allo stato israeliano che una questione, invece legittima, di tutela delle scelte del consumatore. L’alto burocrate europeo dichiara, infatti, che tutto questo rappresenti solo una questione tecnica e non politica e che l’Ue non sostenga in alcun modo boicottaggi o sanzioni verso Israele come dimostra il non mutato trattamento delle merci “made in Israel” che continueranno a godere di tariffe agevolate in base all’accordo di associazione.
Contrariamente a questa dichiarazione, infatti il tutto sembra sempre più un esercizio di equilibrismo politico, visto che l'”antisionismo” pare sia una delle caratteristiche comuni a molte formazioni partitiche europee si è voluto penalizzare alcuni prodotti israeliani (provenienti dai territori) non potendo effettuare un vero e proprio boicottaggio palese… Diciamo che è un modo per tenersi buoni i partner arabi senza prendere una posizione ufficiale per non scontentare altri stati alleati, come gli USA, che da sempre si sono schierati dalla parte di Israele.
Alla fine, comunque, chi andrà a rimetterci, come si sente dalle parole stesse di Netanyahu saranno quei palestinesi che lavorano nelle fabbriche israeliane; il solito capolavoro dell’Europa, insomma.