Editoriali

E’ tempo di cambiare

Dopo 460 razzi lanciati da Gaza sul sud di Israele nel giro di due giorni giunge la tregua concertata tra Egitto e Israele con il buon auspico economico del Qatar che prima che la situazione degenerasse aveva inviato a Hamas 15 milioni di dollari per pagare gli stipendi arretrati ai miliziani del gruppo terrorista, il Qatar che nel recente passato è stato tra i più solerti finanziatori di Hamas ma che ora sembra diventato virtuoso.

Hamas incassa i soldi e anche una comprensibile soddisfazione, infondo, malgrado Israele abbia risposto ai razzi diretti sul sud del paese in ambascia da mesi a causa dei continui tumulti ai confini tra Israele e Gaza, distruggendo 160 postazioni militari a Gaza, si ottengono i soldi e il combustibile che serve a fornire più elettricità e si prosegue. Con buoni motivi, Hamas ha festeggiato nelle strade.

Il tirare a campare non solo soddisfa il gruppo terrorista islamico che dal 2007 controlla con pugno di ferro la Striscia, ma soddisfa anche Israele. Eppure è chiaro a chi abbia un minimo di senso della realtà che questa situazione in cui dei terroristi lanciano missili sullo Stato ebraico e dopo un po’ ottengono soldi e materia prima atta a mantenerli al potere, è la strada maestra per un circolo vizioso senza fine.

La verità è che da troppo tempo Israele ha rinunciato a una strategia di ampio respiro, a una visione generale relativa al problema Hamas e a come risolverlo definitivamente, preferendo gestire il problema senza mai osare troppo, acquisendo vantaggi alla giornata, e la stessa cosa la fa Hamas. Tuttavia c’è una differenza fondamentale. Hamas è un gruppo di terroristi, Israele è uno Stato democratico, Hamas è un’organizzazione analoga a qualsiasi altra organizzazione terroristica o mafiosa, e non è pensabile che uno stato democratico si faccia condizionare o meglio ricattare da una simile entità. Oggi su The Times of Israel, il direttore David Horovitz, certo non un “falco” ha scritto parole di risplendente buonsenso:

“I tumulti, la creazione di tunnel e il fuoco dei razzi costituiscono una estorsione. Se Israele non mette fine alla barriera di sicurezza che mantiene su Gaza, proclama Hamas, allora gli israeliani continueranno a sopportare gli attacchi dei razzi e dei mortai, la minaccia dei tunnel sotterranei, i palloni incendiari che bruciano i suoi campi. Ma se Israele  allenterà il blocco di sicurezza, sicuramente Hamas sfrutterebbe questa opportunità per importare più armi e creare maggiore danno”.

Tenere buono Hamas significa semplicemente buying time, comprare tempo e ringalluzzire i terroristi. Tempo per cosa? Con quale prospettiva?

Daniel Pipes, tra i maggiori esperti internazionali di questioni mediorientali e presidente del Middle East Forum, in un recente articolo dal titolo emblematico Perché gli israeliani evitano la vittoria, ha scritto:

“Le guerre finiscono, come mostra l’esperienza storica, non arricchendo il nemico, ma privandolo delle risorse, riducendo le sue capacità militari, demoralizzando i suoi sostenitori e incoraggiando le rivolte popolari. A tal fine, gli eserciti, nel corso degli anni, hanno tagliato le strade per i rifornimenti, costretto le città alla fame, stabilito blocchi e applicato embarghi. In questo spirito, se Israele avesse intrapreso una guerra economica trattenendo alla fonte il denaro dei contribuenti, negando l’accesso ai lavoratori e interrompendo le vendite di acqua, cibo, medicine ed elettricità, le sue azioni avrebbero portato alla vittoria”.

Israele ha rinunciato da tempo alla vittoria, una vittoria piena e chiara, preferendo a un decisionismo senza ambiguità e riluttanze la gestione quotidiana del conflitto, ma non è così che si possa vincere, non è così che le Brigate Rosse in Italia o la Rote Armee Fraktion in Germania sono state sconfitte, non è così che Al Qaeda è stata messa in ginocchio. Sempre Pipes, nel medesimo articolo scrive:

“L’apparato di sicurezza di tipo difensivo conta enormemente perché spesso ha l’ultima parola sulla politica palestinese, come mostrato dall’episodio avvenuto sul Monte del Tempio del luglio 2017. Dopo che i jihadisti palestinesi avevano ucciso due poliziotti israeliani con le armi nascoste nella sacra spianata, il governo israeliano installò dei metal detector all’ingresso del Monte del Tempio, una decisione apparentemente indiscutibile. Ma Fatah chiese la loro rimozione e nonostante la popolazione e i politici israeliani desiderassero nella stragrande maggioranza che questi dispositivi rimanessero posizionati, essi scomparvero rapidamente perché l’apparato di sicurezza – compresi la polizia, la polizia di frontiera, lo Shabak, il Mossad e l’Idf – avvertì  che lasciarli in loco avrebbe irritato i palestinesi e provocato violenze, caos e persino un collasso.

I servizi vogliono evitare accoltellamenti, attentati suicidi, una raffica di missili da Gaza e una intifada; ma soprattutto temono il collasso dell’Autorità palestinese o di Hamas, chiedendo un governo diretto israeliano sulla Cisgiordania e Gaza. Come afferma l’ex parlamentare Einat Wilf:

“Se l’apparato di difesa pensa che (…) i finanziamenti a Gaza comprino la calma, si farà tutto il possibile per assicurare che i fondi continuino a fluire, anche se ciò significa che la calma viene acquistata al costo di una guerra che andrà avanti per decenni”.

Le dimissioni di Avigdor Liberman, Ministro della Difesa e leader di Yesrael Beitenu, da tempo manifestatamente a disagio con la politica di appeasement e di tatticismo portata avanti dal governo Netanyahu, sono un segno palese di rottura con questo andamento, con il circolo vizioso dal quale non si esce, non si vuole programmaticamente uscire per eccesso di prudenza, inerzia, timore, e soprattutto perché all’attuale classe dirigente al governo in Israele manca una visione a largo respiro sul futuro.

 

 

 

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