E’ ancora presto per fare previsioni, ma certo non è casuale il momento, ora, in cui in Iran, in molte città e cittadine, la gente scende in piazza per manifestare contro il regime teocratico che da quasi quaranta anni ha sequestrato il paese dopo la caduta dello Scia di Persia nel 1979. Ed è il momento, questo, in cui avvengono rilevanti novità in Medioriente: la più significativa, sia politica che simbolica, la decisione di Donald Trump di dichiarare Gerusalemme capitale di Israele. Dichiarazione che avrebbe dovuto in teoria infiammare il mondo arabo e musulmano ma che, al di là di una sollevazione a Gaza fomentata dall’Iran, ha prodotto ben poco di rilievo. E questo è già il segno tangibile che l’appoggio propalestinese dei paesi arabi è più formale che altro, non essendo più ormai da almeno un decennio la “causa palestinese” al centro delle preoccupazioni né saudite né degli emirati, con l’eccezione del Qatar.
La rimessa al centro della scena, da parte degli Stati Uniti, dell’Iran come principale stato canaglia regionale, ha determinato un riavvicinamento decisivo tra l’Arabia Saudita del futuro e rampante re, l’attuale principe Mohamed Bin Salman, e la Casa Bianca, dopo il lungo inverno del periodo Obama. Ed è la fine dello scenario di appeasement con l’Iran voluto dell’ex presidente americano, la condizione necessaria di un nuovo assetto che vede una convergenza netta tra gli interessi sauditi, di contrasto all’egemonia sciita, con quelli di Israele e degli Stati Uniti.
Mentre la Siria è di fatto un protettorato di Teheran con vigilanza russa e Israele interviene sul Golan con operazioni mirate finalizzate a contrastare un consolidamento militare iraniano che possa in un futuro costruire un fronte di aggressione a nord a coadiuvare la presenza di Hezbollah in Libano, l’Iran deve ora sperimentare internamente un malcontento che potrebbe ricreare le condizioni del 2009. La differenza fondamentale rispetto ad allora sembra essere una contestazione più marcata del regime.
Il fronte anti-iraniano americano-sunnita-israeliano, costruito con cura in tutti questi mesi, sta producendo risultati. Innanzitutto quello di polarizzare al massimo i fronti e le alleanze e di ridisegnare l’assetto che Obama aveva completamente scomposto favorendo l’Iran per portare a casa l’accordo sul nucleare a discapito della storica alleanza americana con i sauditi e dell’altrettanto rapporto storico e privilegiato con Israele. Donald Trump ha rovesciato il tavolo e ora può permettersi di twittare a favore del popolo iraniano perché trovi la strada verso la democrazia. Strada impervia certo, ma possibile.
Anche se le proteste di piazza dovessero essere sedate con un ulteriore aumento di morti, ciò che resterebbe nella sua evidenza è la fragilità iraniana malgrado lo sforzo aggressivo di imporsi su diversi teatri contemporaneamente (Iraq, Siria, Libano, Yemen), e al contempo di alimentare il fuoco del terrorismo palestinese. Fragilità che, ad opera di Trump, consiste nell’avergli tolto quella legittimità internazionale che la politica di Obama gli aveva conferito con sommo gaudio di una Europa desiderosa di lucrose commesse su un mercato reso nuovamente disponibile.
E’ dunque opposto lo spartito che si suona. Ancora sostanzialmente senza particolari acuti (Trump non ha affossato il deal voluto dal suo predecessore, ma rifiutandosi di certificarlo lo ha messo in mora), ma predisposto per poterli avere.