La Russia di Putin, negli ultimi dieci anni, ha criminosamente annesso la Crimea, sfidato lo spazio aereo della NATO, assassinato spie in Inghilterra, tentato di influenzare la politica interna degli stati europei e, infine, come ultimo atto di un crescendo mortifero, aggredito militarmente l’Ucraina. La condanna internazionale e le sanzioni occidentali sembrano aver avuto scarso o nullo effetto sul comportamento e sul pensiero russi. Il paese continua a rimanere, come disse Winston Churchill, “un indovinello avvolto in un mistero all’interno di un enigma”.
Una sfilza di libri è stata pubblicata nel tentativo di svelare il suddetto mistero, cercando di gettare un po’ di luce sulle idee politiche che orientano l’azione del Cremlino, cittadella di terrore che mai era stata così impenetrabile nel corso della sua fosca storia. Putin appare freddo e razionale, motivato da obiettivi politici e metapolitici, non sempre compresi appieno dagli analisti occidentali. L’uso della forza in Ucraina è stato certamente determinato da un insieme di valori diversi da quelli della civiltà democratica.
Negli ultimi anni, infatti, una dottrina politica anti-liberale e anti-occidentale nota come Eurasiatismo, o neo-Eurasiatismo, ha preso piede non solo tra gli elettori russi ma anche tra alcuni funzionari del regime, e le dichiarazioni pubbliche di Putin rivelano chiaramente un certo grado di simpatia per gli eurasiatisti. Per comprendere la mente di Putin, dunque, è necessario cimentarsi con forme di pensiero antimoderno e reazionario, tra cui quelle di Alexander Dugin, ex consigliere politico del Cremlino e filosofo di punta dell’Eurasiatismo, capace di ritagliarsi un certo qual seguito anche qui in Italia.
I valori, in politica, contano, e il ruolo di primo piano che l’ideologia eurasiatica gioca da tempo nel discorso pubblico russo ci obbliga a considerarla come una potenziale causa della guerra in corso. Allo stesso tempo, dobbiamo tenere presente che è difficile quantificare l’effettiva influenza di un’idea sugli eventi storici. Certo è, che senza un quadro chiaro del pensiero di Dugin, è difficile comprendere la strategia a lungo termine di Mosca in Ucraina e nel Caucaso, ma è comunque necessario resistere alla tentazione di considerare Dugin come una chiave universale per comprendere la politica estera russa. Se la filosofia politica di Putin è indubbiamente informata dall’Eurasiatismo, la sua promozione delle varianti più estreme di tale dottrina può essere la copertura di un’agenda ben più pragmatica.
Giornalista durante gli ultimi anni dell’Unione Sovietica, Dugin è stato, con lo scrittore Ėduard Limonov, fondatore del Partito Nazional-Bolscevico nel 1994. Da allora è salito alla ribalta, consolidando la sua reputazione nel 1997 con il libro Foundations of Geopolitics: The Geopolitical Future of Russia, adottato come libro di testo presso numerose istituzioni, inclusa l’Accademia di stato maggiore delle forze armate russe. Nel 1998 viene nominato consigliere di geopolitica di Gennady Seleznev, allora presidente della Duma di Stato russa e di Sergej Naryškin, membro di spicco di Russia Unita, il partito di Putin. La sua teoria geopolitica e filosofica è diventata, col passare degli anni, il credo politico di numerosi alti funzionari della cerchia “putiniana”.
A livello “pratico”, Dugin propone una nuova unificazione, da realizzarsi anche mediante il ricorso alla violenza, delle ex repubbliche sovietiche, nonché della Mongolia, del Caucaso e delle coste orientali e settentrionali del Mar Caspio. Il progetto eurasiatico dovrebbe essere supportato, a livello internazionale, da alleanze diplomatiche lungo “assi” che si irradiano da Mosca a Berlino, da Tokyo a Teheran. In merito alle questioni di “valore”, Dugin si oppone al liberalismo moderno, inteso, in senso lato, come ideologia materialista alla base dei diritti individuali, dell’economia di mercato e dell’attuale sistema di diritto internazionale. Nel 2009, ha pubblicato la sua opera più nota e importante, intitolata La quarta teoria politica, in cui riunisce la sua teoria geopolitica, la sua ideologia antiliberale sincretica, la sua visione apocalittica della storia moderna e il posto che la Russia occupa in essa.
Con il titolo del suo corposo saggio, La quarta teoria politica, Dugin si riferisce all’ideologia dell’Eurasiatismo come alternativa al liberalismo, presuntivamente, “dominante” nel panorama mondiale. Secondo il pensatore russo, il mondo moderno sarebbe stato plasmato da tre ideologie – liberalismo, fascismo e comunismo – con il liberalismo che, al termine della Guerra Fredda, avrebbe trionfato sui suoi rivali, inaugurando l’era della post-modernità, caratterizzata da un individualismo sfrenato e da un consumismo dilagante. Sarebbe così sorto un nuovo ordine mondiale, governato dalle leggi del mercato e dall’etica universale dei diritti umani; affinché gli stati eurasiatici preservino la loro sovranità geopolitica, per Dugin è necessaria una nuova sintesi ideologica, che coaguli tutti i nemici del liberalismo di marca occidentale. Questa avversione alla civiltà democratica occidentale, porta Dugin a una radicale opposizione al sionismo, concepito come tradimento di un presunto “tradizionalismo ebraico”, che concepirebbe il ritorno nella Terra Santa come un evento messianico. Inoltre, lo Stato d’Israele, non solo sarebbe un “pervertimento” del “vero” ebraismo, ma costituirebbe il principale strumento del dominio americano in Medio Oriente.
Ispirato da Martin Heidegger, Carl Schmitt, Alain de Benoist e da un numero incalcolabile di pensatori antimoderni, Dugin adotta gli strumenti filosofici della fenomenologia e dell’ermeneutica per capire come si possa tornare a una comprensione premoderna e mitica della realtà. Inoltre, rifiuta la concezione lineare della storia, responsabile di aver prodotto la nozione di “progresso”, preferendo una visione reversibile del tempo: le società cambiano sé stesse non seguendo un unico percorso di sviluppo, bensì trasformandosi secondo una peculiare identità collettiva, che implica anche la possibilità di “tornare” ai valori della tradizione, della teocrazia, del mito come principale forma di pensiero.
Pertanto, l’Eurasiatismo di Dugin può essere classificato come un fascismo postmoderno: una dottrina che, da un lato, si proclama tradizionalista e nazionalista, mentre, dall’altro, rifiutando qualsiasi valore metafisico o morale oggettivo, si rivela di un relativismo estremo. L’Eurasiatismo concepisce le civiltà umane come strutture chiuse, incomparabili, la cui “purezza” è costantemente minacciata dall’universalismo occidentale. La lotta contro l’Occidente, il mercato e i diritti umani viene formulata nella lingua tollerante e “accettabile” del pluralismo culturale, incentrandosi sull’imperativo di “conservare sé stessi” di fronte all’avanzare della società aperta.
Nel suo libro, La missione eurasiatica di Nursultan Nazarbayev, Dugin fornisce un modello di come la sua visione eurasiatica possa essere applicata alla politica internazionale. Secondo Dugin, esisterebbero quattro sfere di influenza geopolitica: le Americhe con al centro gli Stati Uniti; l’Europa e l’Africa; la Russia e l’Asia centrale e, infine, il Pacifico. Per controbilanciare gli Stati Uniti, la Russia dovrebbe consolidare il suo potere all’interno della sua tradizionale sfera di influenza, vale a dire l’Asia centrale, l’Europa orientale e il Caucaso. In altre parole, la Russia dovrebbe ricostruire il suo impero come un’unità politica e di civiltà, tenuta insieme dai simboli e dai miti profondi dell’identità collettiva euroasiatica, prospettando un impero benevolo, rispettoso delle differenze culturali, ma saldamente nelle mani di Mosca e dei suoi apparati di potere. L’espansione imperiale russa non è concepita come una conquista di popoli giudicati inferiori, ma come la liberazione altruistica degli “altri” in una crociata mondiale contro il liberalismo “livellante”. È chiaro come Dugin tenti, ancora una volta, di edulcorare l’imperialismo russo facendogli parlare la lingua del “rispetto delle diversità”.
In breve, il suo progetto è quello di affermare l’esistenza politica della “civiltà slavo-ortodossa”, attraverso la creazione di un Großraum transnazionale sotto tutela moscovita. Il tutto rientra in una visione teorica più ampia in favore di un mondo “multipolare”, composto da Grandi Potenze autonome, in aperta opposizione all’attuale ordine internazionale di stati-nazione sovrani. Più specificamente, è incompatibile con la sovranità nazionale dell’Ucraina, riconosciuta dalla Federazione Russa nel 1994. Il filosofo russo ha dell’Ucraina la stessa idea che ha di Israele, ossia quella di uno “Stato atlantista” al servizio della Casa Bianca.
In Putin contro Putin, Dugin fa un appello diretto al presidente russo affinché adotti la visione eurasiatista come stella polare della sua politica. Secondo il barbuto pensatore, l’equilibrio promosso dal padrone del Cremlino tra liberalismo e patriottismo non sarebbe più sostenibile, in particolare a causa delle sfide lanciate dai movimenti filo-occidentali in Georgia e Ucraina.
È evidente, soprattutto alla luce degli eventi in Ucraina, che in Russia siano prevalsi gli orientamenti più antioccidentali e antidemocratici, ma quanto il messianismo eurasiatista abbia veramente attecchito presso i vertici del Cremlino, che non di rado usano la retorica reazionaria e la religione ortodossa come instrumentum regni, è ancora da chiarire. Dugin stesso considera Putin un politico cinico e “moderato”, poco incline a all’idea d’innescare uno scontro apocalittico con l’Occidente. Si può perfino ipotizzare che sia proprio l’assenza di una ideologia forte e codificata la condizione che consente a Putin di rimanere al potere, ma che priva la Russia della possibilità di diventare qualcosa di più di un minaccioso stato terrorista di second’ordine, “una pompa di benzina mascherata da Paese” nella definizione del compianto John McCain.
La Russia di Putin, a molti studiosi, appare soprattutto come una cleptocrazia autoritaria, mantenuta in piedi dall’omicidio, dalla corruzione e dalle frodi elettorali; una sorta di Stato-Behemoth, dove una ristretta cerchia di potere domina tutte le decisioni e utilizza ogni mezzo per accumulare ricchezze – che investe in Occidente – mentre, allo stesso tempo, si proclama nemica dei valori mercantili dell’Occidente.
Cos’è, allora, la Russia del presente? È chiaro che il potere è in capo a un presidente “infinito” e alla sua cerchia di amici. Alcuni, come Dugin, vorrebbero che questo potere si addensasse maggiormente attorno all’Eurasiatismo messianico. Tuttavia, come dimostrano gli immensi patrimoni degli oligarchi, non sono tanto le idee a guidare la Russia di Putin, quanto una forza bruta che si maschera dietro a un discorso antimoderno e tradizionalista. La Russia contemporanea non possiede una dottrina di fondo o un principio generale che ne articoli lo scopo nel mondo. La fusione di potere, postmodernità e retorica ultrareazionaria ha reso la Russia di Putin imprevedibile. I suoi leader non sanno cosa vogliono, oltre, ovviamente, al potere stesso. Per questa ragione, l’Occidente, non sa come rispondere adeguatamente alla sfida russa. Non ci resta che un mistero, perché la Russia continua a essere un enigma anche per sé stessa.