Una delle pretese più insistenti del mito palestinese è riuscire a dividere in due la capitale dello Stato di Israele (Gerusalemme, Al-Quds in arabo), ottenerne la porzione orientale e farne la capitale di uno stato arabo, musulmano e judenrein di nome Palestina. Perché? Quali sono le motivazioni alla base di questa rivendicazione?
Gerusalemme, sin dalla sua fondazione, è sempre stata una città letteralmente costruita con la roccia. La pietra, quali che fossero i suoi governanti o lo stile dell’epoca, è sempre stato l’unico materiale da costruzione utilizzato. Estratta sul posto, è di colore chiaro e tenera al taglio, col passare del tempo diventa dura e assume una tonalità rosa, grigio-azzurra o ambra. Tale consuetudine, scolpita nei millenni della storia, venne resa obbligatoria per legge dal governatore militare inglese sir Ronald Storrs nel 1918: uno dei pochi lasciti positivi dell’amministrazione britannica. Ancora oggi, ogni nuovo edificio deve utilizzare la pietra almeno nelle facciate. Non esiste sulla faccia della Terra città più ebraica, culla millenaria di solida roccia calcarea, per il popolo dalla dura cervice.
Per confutare le pretese del palestinismo inizieremo con i numeri della demografia storica. Se è risaputo che gli Ebrei mantennero ininterrottamente, per oltre tre millenni, la loro presenza a Gerusalemme, è altresì vero che essi rappresentano il gruppo maggioritario della città almeno dagli anni ’40 dell’Ottocento (da quando cioè esistono statistiche attendibili). Si noti come nel 1876, prima ancora della nascita del Sionismo, vivessero a Gerusalemme 25.030 persone, di queste 12.000 (quasi la metà esatta) erano Ebrei. O di come venti anni dopo, nel 1896, sempre sotto il dominio ottomano, gli Ebrei rappresentassero quasi il 62% dell’intera popolazione. E così via nei decenni successivi, durante i quali gli Ebrei, nonostante i quasi vent’anni di occupazione giordana (1948-1967) della porzione orientale della città e la pulizia etnica che subirono in varie zone di Gerusalemme, hanno continuato ad essere maggioranza relativa della popolazione cittadina.
Una prima cosa dunque la si può affermare senza tema di smentita: Gerusalemme, da quando esistono statistiche affidabili, non è mai stata una città a maggioranza araba così come non è mai stata una capitale per alcuna entità araba e/o musulmana. Ovviamente non è mai stata nemmeno una città “palestinese”, qualunque significato si voglia dare al termine.
L’origine del rifiuto arabo
Come noto il conflitto arabo-israeliano non nasce per una questione territoriale, ma dal rifiuto arabo di accettare una presenza ebraica autonoma in una terra che il mondo musulmano considera parte integrante del dar al-islam. L’origine del rifiuto è dunque da ricercarsi nell’intolleranza nei confronti di tutti gli “infedeli”. La nascita del palestinismo – e del primo “popolo” artificiale della storia, inventato unicamente in opposizione ad un popolo esistente da millenni – segnò semplicemente un cambio di strategia nell’agenda politica del mondo arabo-musulmano. Al giorno d’oggi quello “palestinese” è considerato da molti un popolo a tutti gli effetti, ma resta – politicamente e culturalmente – un artefatto senza identità ancorato in una dimensione ideologico-religiosa distruttiva.
Islamismo e jihad alla base del palestinismo
Il primo leader ante-litteram del palestinismo, il Muftì di Gerusalemme Amin al-Husseini (suprema autorità giuridico-religiosa della città e dei musulmani dei territori circostanti), alleato di Hitler, incitava al genocidio degli ebrei su basi religiose, citando il Corano, lanciando appelli in difesa della moschea al-Aqsa, partecipando come membro attivo e di rilievo nell’organizzazione islamista dei Fratelli Musulmani, promuovendo la jihad. Durante la Guerra di Indipendenza Israeliana le urla negli schieramenti degli eserciti invasori non incitavano ad uccidere “sionisti” o “israeliani”: “Itbach al-Yahud!” gridavano gli arabi, “massacrate gli ebrei!”.
Negli anni seguenti, con la nascita delle sue prime fazioni politiche (Fatah 1959, OLP 1964) il palestinismo ha “sposato” diverse ideologie, a seconda della convenienza del momento, mantenendo però sempre l’ideologia religiosa alla base delle proprie azioni. Ed ancora oggi è così. Vi sono numerosissimi esempi al riguardo, da parte di tutte le fazioni del palestinismo, circa la continua insistenza su concetti religiosi quali i “martiri”, l’esaltazione dei terroristi palestinesi in nome di Allah e del Corano, le carte programmatiche, la pubblicistica e i nomi di molte fazioni, la ricompensa per chi uccide ebrei, l’apologia della jihad come “guerra di liberazione” dagli ebrei (o “sionisti” o “coloni”), la calunnia della moschea al-Aqsa in pericolo, la battaglia propagandistica e diplomatica per islamizzare la storia di Gerusalemme, un’infinità di slogan a sfondo religioso – «milioni di shahid [“testimoni della fede” ovvero attentatori suicidi, ndr] in marcia verso al-Quds», Arafat – e via discorrendo. Le rivendicazioni del palestinismo su Gerusalemme sono l’esempio più lampante di quella che Daniel Greenfield ha definito la religione del colonialismo.
Detto che “ufficialmente” il palestinismo rivendica la parte orientale di Gerusalemme che dal 1948 al 1967 venne occupata illegalmente dalla Giordania, dopo che questa invase, insieme ad altri eserciti arabi, il neonato Stato di Israele, quale è l’elemento religioso alla base della volontà del palestinismo di sottrarre una porzione di Gerusalemme agli Ebrei? In base alla teologia islamica il giudaismo è stato annullato dal cristianesimo, il quale a sua volta ha perso ogni valore con l’apparizione dell’islam. Pur non addentrandoci in questo aspetto strettamente teologico dell’islam (e quindi del palestinismo) diremo solo che, in estrema sintesi, esso ricopia il concetto della “teologia della sostituzione” cristiana, applicandolo secondo due logiche distinte e parallele: da un lato l’islam che, come detto, sostituisce e annulla il cristianesimo (e quindi anche l’ebraismo), dall’altro il “popolo palestinese” che sostituisce e annulla il popolo ebraico. Persino nel nome (fino agli anni ’60 del secolo scorso “palestinese” era usato quasi esclusivamente per indicare gli Ebrei e le loro istituzioni), oltre che nella Terra e nel retaggio storico-religioso. La nascita di uno Stato Ebraico indipendente nella patria ancestrale degli Ebrei e, peggio ancora, la loro presenza a Gerusalemme, culla storica dell’ebraismo e dell’antico Tempio di Gerusalemme è, agli occhi degli islamisti, un fatto inaccettabile.
In lingua araba Gerusalemme è ebraica
La capitale dello Stato Ebraico come detto non fa eccezione. Si consideri il nome arabo di Gerusalemme oggi utilizzato per definire la città, Al-Quds. Venne reintrodotto in maniera definitiva nel XII secolo dal Saladino, dopo la parentesi cristiana che liberò Gerusalemme dall’occupazione musulmana per quasi un secolo (1099-1187). L’origine del nome è la seguente:
– dall’ebraico Bet HaMikdash, “Casa della Santificazione”, con chiaro ed univoco riferimento al “Tempio Santo”, il Tempio di Gerusalemme;
– all’arabo Beit al-Maqdes, “Tempio santo”, abbreviato in seguito in al-Quds (dove quds è semplicemente un’arabizzazione dell’ebraico kadosh, ovvero “santo”), “la Santa”.
In sostanza, quando gli arabi usano il nome Al-Quds per definire Gerusalemme in realtà stanno usando un termine che ne sottolinea in maniera inequivocabile il suo legame storico con gli Ebrei e il Tempio di Gerusalemme. Una curiosità al riguardo: nel Sinai egiziano opera un gruppo terroristico affiliato all’Isis che, prima di giurare fedeltà nel 2014 allo Stato Islamico, si chiamava Ansar Beit al-Maqdes. Tradotto a volte erroneamente in “Esercito per Gerusalemme”, letteralmente significa “Esercito del Tempio Santo”.
Perché Gerusalemme è considerata città santa per l’islam?
Se non stupisce che il nome arabo di Gerusalemme ricordi il suo legame con l’ebraismo (accettabile se gli Ebrei vivono da dhimmi, non accettabile se gli Ebrei vivono in un loro stato autonomo), altrettanto si può dire del motivo per cui essa è considerata santa per il mondo musulmano. Nel Corano si narra di un viaggio mistico compiuto da Maometto. Nella Sura XVII, Al Isrâ’ (Il viaggio notturno), al versetto 1 si legge: “Gloria a Colui Che di notte trasportò il Suo servo dalla Santa Moschea alla Moschea remota, di cui benedicemmo i dintorni, per mostrargli qualcuno dei Nostri segni. Egli è Colui Che tutto ascolta e tutto osserva”. La “Moschea remota” (a volte citata anche come “Moschea lontana”) non è identificata fisicamente e di certo non poteva essere a Gerusalemme, mai citata nel Corano e non ancora in mano ai musulmani, si trovava invece nei pressi di Ji’irrana, un villaggio che sorge tra La Mecca e Taaf nella Penisola Araba (oggi Arabia Saudita). L’attuale al-Masjid al-Aqṣa (“la moschea più lontana”) di Gerusalemme, comunemente nota come Moschea al-Aqsa venne infatti eretta nell’VIII secolo dal califfo omayyade al-Walīd I, sul Monte del Tempio, luogo sacro per l’ebraismo dai tempi di Salomone (970-930 a.e.v ca).
A situare la “Moschea remota” a Gerusalemme fu il primo biografo di Maometto, Ibn Ishaq, che scrisse: «Allora il Messaggero di Dio fu trasportato di notte dalla Moschea della Ka’aba alla Moschea Aqsa, che è nella Casa Santa di Aelia [Gerusalemme, ndr]». In seguito vennero aggiunti ulteriori dettagli, dallo stesso Ibn Ishaq e da altri commentatori, al viaggio mistico di Maometto, fornendo all’islam anche due delle più caratterizzanti regole dei musulmani: il dovere della preghiera quotidiana e l’astinenza dall’alcol.
La ragione per cui Gerusalemme venne considerata santa dai musulmani, allora come oggi, risiede in motivazioni di natura politica e sostitutiva. A tale scopo non esisteva, allora come oggi, luogo più simbolico della città di Gerusalemme.
Negazionismo e intento sostitutivo presente anche nell’architettura
I due edifici musulmani più importanti presenti sul Monte del Tempio sono la Cupola della Roccia e la già ricordata Moschea al-Aqsa. Della seconda (terminata nel 705, più volte danneggiata e ricostruita) e progettata da architetti arabi, di una severa bellezza genuinamente islamica, abbiamo già detto quel che ci interessa per lo scopo di questo articolo.
La Cupola della Roccia (687-691) non ha nulla di “islamico” nella forma: fu progettata da architetti cristiani bizantini copiando in parte le forme del Santo Sepolcro e a guisa di martyrion (con tutte le simbologie tipiche dell’architettura cristiana). Come spesso accade, le varie tradizioni hanno molto comodamente collocato qui molti eventi: la nascita di Adamo, il punto in cui fu legato Isacco (Ismaele per i musulmani) nell’episodio del sacrificio raccontato nella Genesi e altri; è considerato inoltre il punto di partenza di Maometto nella sua ascesa al cielo. Ciò che la rende perfettamente islamica sono invece le iscrizioni che, come ricorda Bernard Lewis (il più importante storico del Medio Oriente, del mondo arabo e dell’islam), «sono piene di espressioni tese a esaltare la superiorità dell’Islam e a negare la Trinità». Evidente l’intento polemico e sostitutivo non solo nei confronti dell’ebraismo (inquilino originario del sito), ma anche del cristianesimo. La costruzione della Cupola della Roccia rappresentò per l’islam una conquista fisica – l’erezione dell’islam sul luogo più sacro e visibile di Gerusalemme – prima ancora che dottrinale. Le scritte non riguardano la fede islamica in sé, ma l’affermazione della superiorità dell’islam su ebraismo e cristianesimo, un vero e proprio manifesto iconografico di tipo politico. La Cupola della Roccia è oggi simbolo di Hamas, della Jihad Islamica e di altre organizzazioni islamiste.
UNESCO, una farsa morale che sposa il negazionismo antisemita palestinese
In definitiva, per dirla con le parole di Fiamma Nirenstein nel libro A Gerusalemme, la capitale di Israele «più che una città santa è stata letta come un manifesto ex post dell’islam, e tale è rimasta proprio per il contrasto con le religioni precedenti». In quest’ottica vanno valutate le rivendicazioni del palestinismo sulla parte orientale di Gerusalemme. Giova inoltre ricordare che:
1) Gerusalemme è sacra per gli Ebrei nella sua interezza, fin dai tempi di Re Davide, il quale fece della città la capitale del suo regno, mentre per i musulmani è la terza città santa (dopo La Mecca e Medina) per la presenza di un solo sito, la Moschea al-Aqsa;
2) durante l’occupazione giordana (1948-1967), case e sinagoghe del quartiere ebraico furono fatte saltare in aria con la dinamite, gli ebrei uccisi o espulsi (questo accadde anche in molte altre città), migliaia di lapidi del cimitero sul Monte degli Ulivi distrutte (o utilizzate per lastricare le strade o per edificare le latrine militari), agli ebrei fu proibito pregare nei luoghi santi;
3) quando nel 1967 Israele liberò la parte orientale della città occupata dalla Giordania, fece una concessione enorme, lasciando il sito più sacro dell’ebraismo (il Monte del Tempio, ove si trovano anche la Cupola della Roccia e la moschea al-Aqsa) nelle mani del Waqf, l’ente islamico che gestisce gli edifici religiosi.
Alla luce di quanto detto sinora, non stupisce che un’organizzazione dell’ONU (ormai megafono dell’OPEC in mano ad una maggioranza di paesi islamici e filo-islamici o ebbri di terzomondismo) abbia sposato in toto le pretese del palestinismo, basate sulla teologia islamica, circa la capitale di Israele. Con una risoluzione, il 15 aprile 2016, l’UNESCO ha cancellato il Tempio di Gerusalemme dal vocabolario e dalla storia. Quello ratificato dall’UNESCO è un progetto di totale negazionismo e sottomissione alle richieste jihadiste del palestinismo, in cui i nomi dei luoghi della storia ebraica (e cristiana) vengono cancellati e sostituiti con quelli islamici. Ancora una volta si ripete il processo alla base dell’islamismo e quindi del palestinismo: sostituzione e annullamento di tutto ciò che è venuto prima del colonialismo islamico.
Secondo l’UNESCO non si dovrà più parlare di Kotel (o Muro Occidentale), il luogo oggi più sacro dell’ebraismo, ma di “muro di al-Buraq” (la creatura alata mezzo mulo e mezzo asino che Maometto avrebbe cavalcato nel suo viaggio notturno, secondo alcuni miti della tradizione islamica successivi alla morte del profeta, e che al muro, sempre secondo tali tradizioni, venne parcheggiato), la Piazza del Muro Occidentale diventa la “piazza di al-Buraq” e così via. La risoluzione riguarda anche altri due siti della religione ebraica (e cristiana): la Tomba dei Patriarchi a Hebron e la Tomba di Rachele a Betlemme. Ogni retaggio storico – la solida pietra – della presenza ebraica viene frantumato e rimpiazzato dal colonialismo culturale islamico.
Islamismo. Se il passato non ha alcun legame con la religione islamica quel passato va polverizzato: così hanno fatto i talebani in Afghanistan nel 2001 distruggendo le due enormi statue del Buddha nella valle di Bamiyan, così ha fatto l’Isis in Siria nel 2015 devastando il sito archeologico di Palmira. Se il passato è la ragione per cui l’islam santifica un luogo, quel passato è, in base alla dottrina islamica, sostituito e annullato dall’islam. O tale deve essere. A Gerusalemme, così come in Giudea e Samaria, questo processo di islamizzazione si chiama palestinismo.
Qui di seguito una serie di sei cartine. A destra la situazione attuale: la Città Vecchia di Gerusalemme con il Monte del Tempio e la municipalità della capitale israeliana. Nelle quattro cartine a sinistra l’obiettivo del palestinismo, attraverso un percorso a tappe intermedie (evidenziate in rosso). Dal sito sacro della moschea al-Aqsa (1) alla volontà di cancellare il retaggio storico-religioso ebraico (e cristiano) connesso al Monte del Tempio (2), alla pretesa di ottenere quella che nel gergo propagandistico viene definita “Gerusalemme est” (che in realtà si trova ad est, a nord e a sud dello storico centro cittadino), che include tutta la Città Vecchia (3) e tutti i luoghi più sacri per le religioni ebraica e cristiana (4). Manca un ultimo punto (5) che è facile immaginare se non si ha paura di affrontare la realtà per quella che oggi è. Per descriverlo si potrebbero utilizzare le carte programmatiche delle principali fazioni del palestinismo o le numerose dichiarazioni della sua leadership (incluso l’attuale leader dell’ANP e di Fatah, Abu Mazen) o tutta la pubblicistica palestinese. Useremo le parole del leader per antonomasia del palestinismo, l’egiziano Arafat. In un’intervista pre-registrata appositamente per andare in onda (in lingua araba su un network giordano) il 13 settembre, ovvero nello stesso giorno in cui Yasser Arafat stringeva la mano del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, sotto gli occhi di Bill Clinton, a Washington D.C., durante la cerimonia ufficiale della firma degli Accordi di Oslo, Arafat disse: «Visto che non possiamo sconfiggere Israele con la guerra, dobbiamo farlo in diverse tappe. Prenderemo tutti i territori della Palestina che riusciremo a prendere, vi stabiliremo la sovranità, e li useremo come punto di partenza per prendere di più. Quando verrà il tempo, potremo unirci alle altre nazioni arabe per l’attacco finale contro Israele».