Già ora si odono gli strepiti e le urla, le minacce e gli appelli, come quello dei settanta parlamentari italiani, contro l’estensione di sovranità israeliana sul 30% dei territori della Giudea e Samaria (Cisgiordania) e conseguenti insediamenti. In testa la UE, che, dal 1967 in poi, quando era ancora in fieri, ha impostato la propria politica mediorientale su una netta direttiva pro-palestinese.
Udiamo il mantra già profferito quando Donald Trump decise di dichiarare Gerusalemme capitale di Israele: la decisione israeliana destabilizzerà il Medio Oriente. Non accadde nulla dopo il riconoscimento di Gerusalemme capitale, così come non accadde quando gli USA riconobbero la sovranità israeliana sulle Alture del Golan, e nulla di eclatante accadrà quando Israele procederà in accordo con gli USA i primi di luglio.
Dagli Stati sunniti, in testa Arabia Saudita, nessuno sembra pronto a stracciarsi le vesti. La “causa palestinese” ha da tempo stancato i potentati arabi. Sono passati gli anni furenti e bellicosi del terrorismo dell’OLP, delle intifade sanguinarie, specialmente la Seconda, dell’incondizionato appoggio. Il realismo è prevalso. Israele non può essere sloggiato. Bisogna fare i conti con questo fatto. Sì, certo, la propaganda contro lo Stato ebraico, che prese avvio dalla fine della Guerra dei sei giorni, non ha mai perso il suo mordente, ma oggi, gli arabi guardano altrove, soprattutto all’Iran, alla sua politica egemonica, al pericolo concreto che rappresenta per i propri assetti. Hanno bisogno dell’ombrello americano contro il nemico sciita e Israele è indispensabile per il suo contenimento.
Abu Mazen a Riad come al Cairo, da anni non gode più di alcuna credibilità. Quando si reca in visita, il vecchio capobastone di Ramallah, non è ricevuto come in Europa con i tappeti rossi, i “fratelli” arabi ne conoscono assai bene le gesta, le propensioni cleptocratiche, la drammatica inadeguatezza come leader. Appare per quello che è, una figura affondata nel passato.
Le cancellerie europee ripetono frasi ormai stantie, invocano negoziati, come se, dal 1993 in poi, anno degli Accordi di Oslo, le munifiche proposte fatte prima ad Arafat e poi ad Abu Mazen, nel 2000 e nel 2008, dai due Ehud, Barak e Olmert, non ci fossero mai state, come se Gaza non fosse stata lasciata nel 2005. Per la UE, relativamente a Israele, la storia è condannata a perpetuare lo stesso fallimentare approccio: Israele si deve sedere a un tavolo al quale non si concluderà mai nulla.
L’indisponibilità palestinese a ogni proposta è stata costante ed inflessibile. E come poteva essere altrimenti? Il business fioriva alla grande. Centinaia di milioni di dollari in sussidi dati dall’Europa e dagli Stati Uniti prima all’OLP e poi all’Autorità Palestinese, di cui una parte consistente è entrata nelle tasche personali di Arafat e Abu Mazen, per non parlare di quelli defluiti nelle tasche dei jihadisti in carcere e delle loro famiglie, facevano il paio con la leggenda che fosse l’intransigenza israeliana a impedire ogni accordo. Chiagni e fotti e nel mentre si procedeva all’incasso e si continua a procedere anche ora, seppure Donald Trump abbia contribuito in modo determinante a diminuire i flussi e a mostrare, dietro i fondali dipinti, la realtà. E’ stato l’unico presidente americano, nella lunga fila dei democratici e dei repubblicani che si sono alternati vicendevolmente alla Casa Bianca, a sbaragliare il campo dagli equivoci e dalle ipocrisie, a togliere da sotti i piedi di Abu Mazen i tappeti di dollari americani per pagare i terroristi, a cessare il finanziamento all’UNRWA, carrozzone ONU per la moltiplicazione senza fine dei “rifugiati” palestinesi, a dire quello che era ovvio, che Gerusalemme è di fatto, dal 1948, la capitale dello Stato ebraico. Ha messo Abu Mazen e la sua cricca nell’angolo dove nessuno prima di lui li aveva messi, mostrando al mondo quello che ogni uomo di buona volontà sapeva già, che si tratta di un vecchio baro circondato da una corte di goodfellas.
Il Piano di pace con il suo nome, promette ai palestinesi un loro Stato ma solo a condizione che riconoscano la legittimità esistenziale, non meramente geografica, di Israele, e che i gruppi terroristi, Hamas in testa, rinuncino alla lotta armata. Allora si potrà andare al sodo. Venendo meno queste condizioni, Israele potrà procedere ad estendere la sua sovranità su quei territori che l’unico documento che fa testo nell’ambito del diritto internazionale, il Mandato Britannico per la Palestina del 1922 e l’annesso memorandum, mai abrogato, mai venuto meno nelle sue disposizioni essenziali, concedeva all’abitabilità ebraica. E dove se no? Giudea e Samaria dall’inconfondibile suono ebraico incrostato di storia biblica, non Sharm El Sheikh.
Il diritto ebraico di dimorare a occidente del fiume Giordano è chiaramente stabilito nel Mandato e non vi è nessun altro documento che lo scalzi, né possa farlo. Le terre “palestinesi” lo sono solo in senso geografico e Israele ne occupa il suolo legittimamente dopo una guerra di aggressione che vide la Giordania sconfitta e mise fine alla sua occupazione e poi annessione, questa sì, del tutto illegale di quegli stessi territori. Ma il mondo allora scrollò le spalle. I giordani non sono mica ebrei. Così come Israele non aveva un diritto legale sui territori del Sinai restituiti all’Egitto la Giordania non ne aveva nessuno sui territori cisgiordani a cui rinunciò di fatto nel 1994.
I tempi sono ormai maturi per Israele, dopo 98 anni, e grazie a un presidente americano dai modi spicci e senza peli sulla lingua, per prendersi ciò che è suo. I palestinesi hanno perso tutti i treni della storia sui quali potevano salire, Israele, questo non intende perderlo.