Riceviamo da Vincenzo Pinto e volentieri pubblichiamo
L’idea di lanciare una gara di traduzione di brani di letteratura yiddish dal tedesco all’italiano mi è venuta a seguito dalla dipartita della mia amata consorte Alessandra (Cambatzu n.d.r.), appassionata traduttrice e insegnante da oltre vent’anni nelle scuole italiane. Mi sono quasi sentito responsabile della sua eredità intellettuale e spirituale, pur essendo per formazione uno storico del nazionalismo (del sionismo) e dell’antisemitismo. Ho cercato di assumere questa pesante eredità (pesante innanzitutto per le circostanze materiali ed emotive in cui si è consumata) e ho lanciato l’anno scorso la gara di traduzione intitolata a mia moglie: I ponti di Alessandra. La prima edizione si è svolta al liceo berlinese Albert Einstein, dove Alessandra ha insegnato per sei lunghi anni. Quest’anno ne è prevista una seconda, che riguarderà anche alcune scuole italiane.
Il termine “ponte” ha un significato quasi immediato: è qualcosa che collega due sponde separate da un corso d’acqua più o meno grande. Il logo che ho deciso di creare per l’iniziativa ritrae due persone che si trovano dalla parte opposta delle due rive e che idealmente si abbracciano vicendevolmente, quasi a incoraggiare la ricongiunzione sul ponte oppure sulla riva opposta. Dove avverrà l’incontro non è dato di saperlo. Ciò che possiamo dire è ciò che presuppone tale incontro: l’atto di immedesimarsi nelle vicende altrui (che ho indicato nel colore delle due persone). Senza quest’atto di immedesimazione, senza la vera e profonda comprensione dell’altro, il tragitto da una riva all’altra può essere più o meno lungo, più o meno semplice, ma non è costruttivo. Ognuno rimane quello che è, non avviene alcun trapasso nell’altro, nessuna “alienazione” della propria identità.
Il mio discorso potrà apparire a prima vista un’ennesima difesa e apologetica dell’ibridazione, termine molto in voga alcuni decenni fa e designante il processo di ridefinizione identitaria attraverso l’incrocio di più culture. Il termine, di origine genetica, non ha avuto culturalmente molto successo, per una serie di ragioni che sono sotto gli occhi di tutti. Chi si avvicina alla cultura altrui assumendo verso la propria una visione negativa, finisce quasi inevitabilmente per odiare se stesso e per amare strumentalmente l’altro. Chi si avvicina “dialogando” (altro termine molto in voga nel discorso religioso) è incline a smussare gli angoli più spigolosi del proprio partner, ma fondamentalmente basta a se stesso.
Creare i ponti vuol dire quindi facilitare i transiti, i passaggi da una riva all’altra? Chi passa però su questi ponti? La rana e lo scorpione? I ponti salvano oppure uccidono?
A questa domanda ho cercato di rispondere con l’iniziativa etico-didattica in memoria di Alessandra. L’eredità della lingua yiddish è notoriamente associata agli eredi della cultura yiddish, cioè agli ebrei askenaziti parlanti la mame loshn (lingua madre). Il mondo yiddish europeo è stato distrutto inizialmente dal mondo sovietico (dove si cercò di trasformare gli ebrei in una nazionalità sovietica, assegnando loro un territorio e tentando di riscrivere l’alfabeto yiddish privandolo della sua componente ebraica e aramaica), poi sterminato da quello nazionalsocialista. Dopo la guerra, il mondo yiddish sopravvive (salvo alcune isole) soprattutto negli Stati Uniti (in una variante parzialmente secolarizzata) oppure in Israele (dove prevale la variante ortodossa-religiosa). Chi dunque è il legittimo erede della lingua yiddish?
In Italia lo yiddish è percepito e rappresentato come la lingua delle masse ebraiche dell’Europa orientale pre-nazista, che erano generalmente bundiste (socialdemocratiche). Questo è il messaggio che trapassa dalla letteratura e dalla pubblicistica. È vero che molti autori della letteratura yiddish non erano affatto membri di quell’area politica (pensiamo al conservatore Isaac B. Singer), ma il nesso immediato è quello. Siccome il mondo yiddish è visto come la vittima sacrificale del nazionalsocialismo (e solo in misura minore dello stalinismo, ritenuto una “deviazione” nazionalista del “giusto” afflato egalitario), ecco che lo yiddish è un affare dell’area politica socialdemocratica. L’inferenza successiva è che il mondo yiddish deve avere un rapporto critico con lo stato di Israele, così come lo ebbe il Bund sin dagli inizi col sionismo e come è “naturale” che sia: lo scorpione sionista non può che uccidere la rana bundista, visto che ama l’ebraico (la lingua della tradizione) e odio il “gergo” (la lingua dell’esilio).
Andando avanti così è chiaro che si potrebbe anche sostenere che lo yiddish sia la lingua dei veri religiosi ebrei askenaziti, perché sono loro che lo parlano quotidianamente e, così facendo, ne sostengono la perpetuazione viva e orale. Dove sono le masse che hanno conservato questa lingua? Come appare chiaro dal mio discorso, ciò che voglio sostenere è che lo yiddish è un patrimonio di tutta l’umanità non malgrado Israele, ma grazie a Israele. Sostenere il contrario significa conservare una visione speculare e narcisistica della cultura: il ponte si crea solo per trasportare noi stessi sull’altra riva. Dire Israele e dire lo stato di Israele può apparire una forzatura culturale, ma politicamente parlando oggi è così. È un fatto che va accettato, nel bene o nel male.
Difendere la lingua yiddish, oggi più che mai, non significa restare ancorati alla storia lacrimosa del passato o a ricordare i massacri perpetrati dai nazisti o gli obbrobri sovietici, ma riconoscere la sua “alienazione” (positiva) in un nuovo contesto politico e sociale. Ritenere che lo yiddish debba essere associato solo a un certo colore della casacca oppure che non possa essere diffuso dai sionisti perché “naturalmente” contrari allo yiddish (secondo il vecchio principio del terzo escluso) significa erigere i muri e distruggere i veri ponti. Quelli che permettono il transito nel diverso attraverso il medesimo. Questo è ciò che I ponti di Alessandra intendono fare. Questo è ciò che io, suo esecutore testamentario, farò.