Su La Repubblica del 12 dicembre Leonetta Bentivoglio intervista Daniel Barenboim, celebre direttore d’orchestra e pianista argentino-israeliano, noto anche per il suo fervido antisionismo declinato alla Robespierre, in nome di una morale superiore della cui missione egli si sente investito da molti anni. Nella succinta presentazione biografica che anticipa l’intervista, la giornalista di Repubblica ci informa che Barenboim “ha lavorato, dagli anni ’90 in poi, con l’intellettuale americano-palestinese Edward Said, scomparso nel 2003. Insieme hanno scritto libri e realizzato progetti a favore del dialogo tra israeliani e palestinesi, come la creazione del West-Eastern Divan, laboratorio musicale che raccoglie ogni anno in un’orchestra giovani strumentisti arabi e israeliani”.
Il mistagogo Said, autore del celebrato Orientalismo in cui propone la tesi truffaldina ma di grande appeal secondo la quale lo sguardo degli islamologhi occidentali sugli arabi e i musulmani sarebbe intrinsecamente razzista in quanto colpevolmente bianco, è stato uno dei più blasonati e perniciosi detrattori di Israele di cui si abbia memoria. Il filopalestinismo e l’amore per la musica hanno unito di fatto negli anni questa colta coppia salonnière.
Nell’intervista a Repubblica, Barenboim manifesta tutta la sua indignazione per la vittoria di Donald Trump, nonostante sia costretto a prenderne atto a denti stretti, “Bisogna accettare le cose così come stanno e provare a cambiarle da dentro. Come ha detto Obama, l’elezione è stata legittima. In futuro sarà necessario reagire dall’interno a eventuali ingiustizie. Sembra assurdo comunque parlare di democrazia quando, con ciò che suscita la diffusione capillare e manipolatoria dei media, vince solo chi ha più soldi”.
Naturalmente, le centinaia di milioni di dollari messi a disposizione della campagna pauperista di Hillary Clinton, tra cui parecchi venuti dalle tasche di George Soros, uno dei più implacabili detrattori di Israele, non contano. Pecunia non olet, soprattutto se i soldi provengono da chi combatte a favore della “causa palestinese” nobilitandola epicamente come lotta per la libertà contro l’oppressione dell’”entità sionista” come la chiamava il lord of terror e Nobel per la pace, Yasser Arafat.
“Oggi l’unica autorità che conta è quella morale”, ci informa stentoreo Barenboim. La morale di chi però? Di chi, come ricorda Giulio Meotti, “Nel 2008 ha ottenuto un passaporto palestinese, un gesto approvato dal governo di unità nazionale guidato da Hamas”? e dunque “Ha promesso fedeltà a un’entità antisemita che cerca di eliminare l’altro paese di cui Barenboim ha il passaporto, Israele”? Sarebbe questa per il famoso direttore d’orchestra ebreo-israeliano l’autorità morale, quella sempre di colui, il quale, come sottolinea ancora Meotti, nel 2013, in un’altra intervista, questa volta a Der Spiegel, dichiarò di non voler essere chiamato israeliano poiché, “Di cosa c’è da essere orgogliosi oggi? Come puoi essere patriota di un paese che ha occupato un territorio straniero per quarantacinque anni?”. Concetto ribadito nell’intervista a Repubblica con queste parole “Io non smetto di domandarmi come un popolo perseguitato per secoli possa occupare un territorio che apparteneva ad altri”.
Ci siamo, e sempre siamo qui, a confrontarci con la vecchia immarcescibile patacca, quella che asserisce essere la Palestina terra araba espropriata dai “colonialisti” ebrei, dai bianchi europei conculcatori dei diritti dei “neri” arabi (uno dei cavalli di battaglia del defunto compare ideologico di Barenboim, Edward Said). Perché per Barneboim come per Said, sono i colonizzatori musulmani del VII secolo i veri e originari “proprietari” della terra sulla quale gli ebrei hanno sempre vissuto ed abitato, in ossequio alla concezione islamica classica la quale prevede che la terra conquistata dall’esercito di Allah sia per sempre musulmana. E’ un concetto chiarito esemplarmente dall’articolo undicesimo della Carta di Hamas:
“Il movimento Islamico di Resistenza crede che la terra della Palestina sia un Waqf islamico consacrato alle future generazioni musulmane fino al Giorno del Giudizio.”
Il direttore della Berlin Staatskapelle, con doppio passaporto israelo-palestinese a sottolineare demagogicamente e irrealisticamente la sua concezione di pacificazione tra i due popoli, con netta preferenza per il secondo (emerso strumentalmente nel 1967 dopo la disfatta araba nella Guerra dei Sei giorni), è lo stesso che nel 2015 si offri di portare la prestigiosa orchestra tedesca a Teheran , ottenendo la mirabile doppietta di essere aspramente criticato dal governo israeliano e respinto, in quanto detentore di un passaporto dello Stato ebraico, da quello iraniano.
Teheran sostanzialmente fece capire a Barenboim che per essere utili idioti fino infondo era necessario un passo ulteriore. Liberarsi del passaporto israeliano e tenersi solo quello palestinese.
In fondo basta poco.