Erano anni molto difficili, la Seconda Guerra Mondiale infuriava in Europa e i nostri fratelli venivano massacrati dall’oppressore nazista.
Gli Inglesi tendevano a dare la Terra di Israele agli arabi per motivi economici come il petrolio in loro possesso, mentre noi ebrei in Terra di Israele non avevamo nulla da dare.
I giovani della comunità, me compresa, avevano aderito all’organizzazione giovanile che li preparava a diventare lavoratori per la creazione e la manutenzione dei “kibbutz” e dei “moshav”. Il mio gruppo andò al Kibbutz Ein Gev, nel nord. Facemmo ogni genere di lavoro in ogni luogo come case, fienili, sale da pranzo, case per bambini e tutto ciò che è richiesto.
Avevo informato i miei genitori che stavo con gli istruttori e che il corso avrebbe avuto una durata di circa tre mesi. Non era accettabile che una ragazza vivesse al di fuori della casa dei genitori prima del matrimonio. I miei genitori erano molto tradizionalisti, infatti eravamo discendenti da famiglie e generazioni di rabbini e quindi ero cresciuta con valori religiosi.
Però, nonostante l’educazione religiosa ricevuta in casa, l’impatto con l’organizzazione giovanile era stato più forte di me in quanto consideravo i suoi scopi fondamentali.
Scrissi a mia madre che io non sarei venuta a casa dopo l’addestramento, ma sarei rimasta in attività nel kibbutz per la mia realizzazione ideologica esistenziale.
Inutile dire quanto mia madre fosse arrabbiata, ma ero decisa ad andare per la mia strada, seguendo la mia fede.
Nel giro di un breve periodo nel kibbutz diventai parte delle truppe d’assalto Palmach e mi sentivo apprezzata e orgogliosa di appartenervi. Essere parte delle formazioni del Palmach significava difendere il mio Paese in tutte le condizioni e non farsi prendere dalla polizia britannica.
Il campo di addestramento era stato istituito nel boschetto di eucalipti sul bordo del lago. Montate le tende, la zona era stata chiusa per motivi di riservatezza. La formazione comprendeva la cura del fisico con lunghe corse, esercizi di sopravvivenza, combattimenti corpo a corpo con armi leggere e pesanti, prove di orientamento specialmente di notte.
Dopo due intense settimane, una notte siamo usciti con tutte le attrezzature necessarie sulle nostre spalle. Per ragioni di riservatezza e di sicurezza abbiamo navigato in barca per il Kibbutz Ginosar del comandante del Palmach Yigal Allon. Dal Ginosar Kibbutz abbiamo proseguito a piedi fino al kibbutz Hrakuk per passare la notte. All’alba siamo ripartiti verso Safed senza percorrere strade. In serata siamo arrivati al Monte Meron, e attraverso il Wadi koren siamo arrivati al kibbutz Eilon. Per tutto il tragitto ci siamo impegnati a rimanere nascosti dagli arabi e inglesi.
Dopo un periodo di riposo al Kibbutz Eilon, col calare del buio abbiamo continuato a piedi verso Mesuba. Sfortunatamente, un pastore arabo ci ha notato ed ha immediatamente allertato gli abitanti del suo villaggio che hanno fatto irruzione urlando contro di noi come se fossimo clandestini. Alcuni di loro ci picchiavano ed esplodevano colpi d’arma. Certo è che si sono affrettati a chiamare la polizia britannica che è venuta verso di noi.
Abbiamo spiegato alla polizia che eravamo un gruppo di studenti di botanica, ma le ragazze del gruppo avevano sbagliato strada. Le ragazze erano stanche ed esauste. Tutte le nostre spiegazioni non aiutarono. Tra di noi vi erano ragazzi di colorito scuro, ebrei mediorientali, sospettati di reati , furono arrestati e presi in custodia dalla polizia di San Giovanni d’Acri. Gli altri membri del gruppo continuarono a camminare di notte.
Durante le indagini di polizia i nostri amici erano imprigionati ma gli inglesi non riuscivano a dimostrare i loro sospetti e, per mancanza di prove, furono rilasciati.
Il gruppo si riunì ad Acri la sera e il giorno dopo andammo a piedi verso Nazareth al nostro obiettivo: il kibbutz Degania. La strada era lastricata di ostacoli e possibili imboscate.
In quel periodo nella stagione estiva e di notte era consuetudine tra gli arabi, a causa del calore, dormire sui tetti. Passando vicino a uno dei villaggi arabi, i cani ci sentirono e si misero ad abbaiare all’impazzata. Fortunatamente riuscimmo a dileguarci. La nostra gioia fu molto breve.
Improvvisamente arrivammo al campo britannico. Illuminato e sorvegliato da cani da guardia che abbaiavano terribilmente, identificandoci. La paura di essere arrestati era grande. E come per miracolo, le luci si sono improvvisamente spente ed i cani smisero di abbaiare: calò il silenzio. Capimmo che uno dei nostri uomini, spia infiltrata nel campo come soldato britannico di polizia al campo, aveva capito il pericolo e subito tolto l’illuminazione in tutto il campo. Così siamo stati salvati e abbiamo proseguito verso kibbutz Degania, dove ci attendeva una barca per condurci al Kibbutz Ein Gev.
Gli infiltrati (Stulim), amici del Palmach, con i loro volti scuri, di origine orientale araba e quindi padroni della lingua araba, erano preparati come “mistaravim” chiamati anche “daruisci”. Quegli arabi erano nomadi analfabeti, malvestiti, occupati in genere in qualità di operai e trasportatori nella compagnia “Ashlag” del Mar Morto. Questi nostri infiltrati erano addestrati dal Palmach al duro lavoro di mescolarsi fra gli arabi per raccogliere informazioni sulle bande e le attività arabe contro gli ebrei in Terra d’Israele.
Le informazione raccolte furono comunicate in un incontro segreto sulle montagne della Giudea.
Continuammo il nostro viaggio. Quando arrivammo ad Ein Gedi trovammo una sorpresa. Mia madre insieme a mia sorella era venuta al kibbutz a farmi visita.
Nella mia ingenuità scesi dalla nave, stanca dal viaggio arduo, indossando dei pantaloncini corti. Il nostro shock fu enorme quando ci vedemmo.
Per la mia famiglia, vedermi così vestita e tra uomini fu sconvolgente. Dissero:”Che cosa è successo alla ragazza?, “Che ragazza è diventata?”, “Che compagnie frequenta?”. Fu una conversazione difficile, mia madre arrabbiata si staccò da me e la famiglia mi abbandonò.
Con il passare del tempo, conoscendo le mie azioni, la loro rabbia mutò in orgoglio.
Gli Inglesi continuavano la loro missione in Israele, catturare la brigata ebraica.
Il 29 giugno 1946 era un sabato, chiamato “Shabbath nero”. I britannici scoprirono il deposito d’armi e arrestarono i leader della Agenzia Ebraica ed i capi del popolo. Questa notizia si sparse in tutto il paese. Anche mia madre venne a sapere e, per la preoccupazione per me, lei e le sorelle distrussero tutte le mie fotografie e tutte le prove della mia esistenza, nel caso gli inglesi fossero entrati in casa a Tel Aviv riconoscendomi.
Il 29 novembre 1947 fu annunciato alle Nazioni Unite la divisione della terra di Israele in due stati per ebrei ed arabi. Gli Ebrei felici ballavano per le strade, gli arabi si sentivano sconfitti ed interruppero in tutti i modi le vie d’accesso alle città di Gerusalemme, Haifa, Safed, Tiberiade e altre. Viaggiare diventò pericoloso e spaventoso.
La polizia britannica proibiva agli ebrei di portare armi, la paura e il panico presero tutti i cittadini residenti.
Arrivare a Gerusalemme diventò una vera e propria missione. Era impossibile non muoversi in convogli sulla strada e poi con mezzi corazzati. Gli arabi continuavano a sparare e non ci era permesso di difenderci con le armi.
Avevano messo a punto metodi di guerra sulla strada, come gatti morti riempiti d’esplosivo e gettati sulle strade. I veicoli che non si accorgevano del cadavere che giaceva sulla strada erano colpito dall’esplosione. In questa situazione io divenni una combattente infermiera per servire come scorta sui convogli provenienti da Gerusalemme. Dal momento che non era permesso armarsi, le ragazze si vestivano con grandi cappotti sotto i quali nascondevano piccole armi.
Avevo in tal modo effettuato tre scorte quando un giorno, in inverno, eravamo nella gola di porta “Shar agai Bab el Wad” e abbiamo ricevuto un ordine di missione: l’unità del Palmach del kibbutz Kiryat Anavim durante la notte, presso il villaggio arabo Saris, era stata attaccata e dopo una feroce battaglia era stata costretta a ritirarsi lasciando sul posto tre feriti gravi. La nostra missione era quella di riuscire ad aiutarli. Abbiamo fermato i nostri veicoli blindati disponendoli come un muro di protezione. Per raggiungerli dovevo strisciare sul terreno e tentare di salvarli. Ma gli arabi continuavano a spararci da tutte le direzioni. I comandanti tentarono in ogni modo di strisciare fino a loro ma fallirono.
Chiedemmo aiuto al Kibbutz Neve Ilan che aprì il fuoco contro gli arabi, che però erano per loro fuori tiro. Mentre gli arabi continuavano a spararci, passò un convoglio di soldati Onu che attivarono dei fumogeni. Ma i cecchini arabi continuavano a bersagliare i feriti e qualsiasi cosa nei dintorni. Non avendo alternative, ci ordinarono di tornare a Kiryat Anavim e provare la mattina seguente a raggiungere i feriti. Il giorno dopo quando arrivai sulla scena mi trovai di fronte ad un’immagine terribile. Il blindato era insanguinato. L’orrore fu grande. Nella notte avevano macellato i feriti. Da allora si decise che un soldato trovatosi perduto si dovesse suicidare piuttosto che cadere in mano araba.
Lo choc fu duro.
Col passare del tempo, le automobili non si muovevano sulle strade e gli arabi continuavano le incursioni per Gerusalemme, che diventò una città sotto assedio. Alimenti e beni di consumo, compresi i farmaci, erano esauriti. Il problema più grande erano neonati e bambini. Le strade erano deserte.
Il mio compito era di scortare i convogli di cibo a Gerusalemme, inquadrata in una unità militare basata al kibbutz Hulda. Ci equipaggiarono con fucili, la borsa del pronto soccorso era sempre con me. La nostra unità può vantarsi di aver scortato con successo dei camion giunti a destinazione a Gerusalemme con viveri e vestiario.
L’ultimo convoglio stava portando a Gerusalemme cibo e vestiti, giunto oltre il crinale detto Ahtula, molti arabi apparsero all’improvviso, indossando la kefiah e dotati di fucili. Abbiamo capito subito, era un agguato.
Abbiamo capito che questo convoglio era molto importante perché accompagnava Golda Meir e David Ben Gurion. Mentre la nostra organizzazione si preoccupava della sicurezza del viaggio, gli arabi hanno aperto il fuoco contro il convoglio e sono riusciti a colpire un camion pieno di divise da combattimento. Facilmente i vestiti presero fuoco e il camion fu abbandonato da noi. Anche se vulnerabili abbiamo proseguito sulla strada per Gerusalemme con la massima attenzione e reattività. Questo fu l’ultimo convoglio che giunse a Gerusalemme, seguito da un blocco completo.
Il posto di polizia di Latrun si trovava sulla strada per Gerusalemme ed era controllato dagli arabi. Gerusalemme era sotto bombardamento costante dai giordani “Ligaionerym”, tanto che dappertutto si sentivano gli echi delle bombe. Nonostante questo, i combattenti del Palmach continuarono a liberare costantemente intere zone di Gerusalemme, casa per casa.
Latrun era un luogo strategico per la liberazione di Gerusalemme e Ben Gurion emise l’ordine di conquistarlo ad ogni costo.
Prima di andare in battaglia, il comandante del Palmach, Yigal Allon disse: “Sappiate che andate a combattere per liberare Gerusalemme, la capitale di Israele. I bambini hanno fame di pane e sete d’acqua. Il destino di Gerusalemme è nelle vostre mani”
Queste parole furono per i combattenti come un ordine divino. Dio li aveva scelti per questo compito.
Erano giorni d’estate secca e spinosa. I legionari giordani sparavano continuamente. Era necessario che ci spostassimo di notte strisciando sul terreno. Avevamo vestiti corti, in quanto gli altri erano andati bruciati sul camion sulla strada per Gerusalemme. Ogni corpo era pieno di sabbia che entrava nel naso e ferite di spine che entravano nella pelle. Ma la cosa peggiore è successa quando siamo arrivati al posto di comando vicino Latrun. Hanno aperto il fuoco contro di noi causando molti feriti.
Combattenti e paramedici sono rimasti feriti. Da tutte le parti si udivano richieste e grida di aiuto. Purtroppo ero la sola infermiera rimasta e sono andata di ferito in ferito per capire chi potevo salvare. Ho dato da bere a chi aveva bisogno, medicato, accarezzato e abbracciato una persona che era sotto shock, il tutto mentre continuavano a spararci. La mia attrezzatura medica era finita. “Cosa fare?”
Mentre stavo medicando un ragazzo ferito è esplosa vicino a noi una granata ferendomi alla schiena. Non avevo neanche lacci per fermare il sangue e fu il mio vestito bagnato a fare da blocco.
Nonostante l’inferno, riuscimmo a conquistare il posto di comando vicino Latrun. Chiedemmo rinforzi, ma chi venne fu attaccato gravemente e quindi ricevemmo l’ordine di ritirarci.
I Legionari arabi si ripresero Latrun poiché erano più numerosi e noi, pochi e con i feriti, dovemmo ritirarci.
Amos, comandante del plotone, era stato ferito gravemente allo stomaco, l’abbiamo dovuto lasciare lì con una granata in mano, così che se fossero arrivati i giordani si sarebbe fatto esplodere anziché farsi prendere prigioniero. Speravamo di poter tornare prima noi a salvarlo.
Il nostro ritiro durò fino alle prime ore del mattino, poi ci fu l’esplosione di una granata. Il nostro comandante di compagnia, Ziv Tsafrir, fece un segno: capimmo che Amos era morto.
Nel frattempo arrivarono i rinforzi per sgomberare i feriti dal posto di polizia. Il comandante della compagnia mi chiese di accompagnarli a raggiungere il quartier generale per informare il comando della tragedia. Nell’auto c’era solo un posto libero e quindi accompagnai a piedi altri tre soldati per non lasciarli soli. Raggiungemmo il centro comando a Shar Gai, sotto il bombardamento dei legionari.
Due giorni dopo questo attacco, il primo “cessate il fuoco” entrò in vigore.
Derek Burma era la strada scavata tra le rocce che da Gerusalemme portava alla costa. Ma nel mezzo non era transitabile e si dovevano trasportare a schiena le merci tra i camion provenienti da Gerusalemme e da Tel Aviv.
Mi ricordo in particolare i camion che venivano da Gerusalemme carichi di lavoratori curdi, con barbe, provenienti da un villaggio religioso, gente molto coraggiosa e credente che con le loro mani trasferivano le merci tra i camion.
Durante l’assedio di Gerusalemme combatterono sei battaglioni.
Per tutto il tempo continuarono i nostri tentativi di unire gli sforzi con l’obiettiv
o di rompere l’assedio della Città Vecchia. Cercammo di raggiungere le mura della città attraverso la Porta di Jaffa, ma i giordani erano in una miglior posizione strategica. Lanciando granate oltre le mura piegarono tutti i nostri sforzi.
Riuscimmo a costruire una funivia tra il monte di Sion e le mura per far giungere cibo a Gerusalemme.
Latrun City Police e la città vecchia furono conquistate nella “Guerra dei Sei Giorni” nel 1967.
Testimonianza di mia madre, Yoceved Ben Shmuel
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