La cosiddetta “causa palestinese” tornata prepotentemente in auge dal 7 ottobre scorso in poi, venne confezionata a Mosca durante i primi anni Sessanta in funzione antiamericana e allo scopo di ingraziarsi il mondo arabo, nel contesto della contrapposizione bipolare tra Stati Uniti e Unione Sovietica.
Il cambiamento di rotta russo nei confronti di Israele, dopo la crisi di Suez del 1956, era dovuto alla consapevolezza ormai acquisita che il novello Stato ebraico non avrebbe orbitato nella propria sfera di influenza ma in quella occidentale ormai a trazione americana.
La “causa palestinese”, la creazione di un popolo autoctono oppresso, vittima del colonialismo europeo incentivato dall'”imperialismo” americano sarebbe diventata, in modo particolare a partire dal 1967, (data fatidica che segnò la seconda grande e più eclatante sconfitta degli eserciti arabi coalizzatosi per distruggere Israele), il maggiore e più longevo successo propagandistico dell’Unione Sovietica.
Il furore ideologico contro Israele di cui oggi vediamo l’acme è figlio di quella stagione e del suo incessante prolungamento, così come lo sono le parole d’ordine che fanno parte del lessico demonizzante utilizzato dai suoi odierni detrattori, secondo i quali l’esercito israeliano perpetrerebbe a Gaza un genocidio ai danni di una popolazione espropriata della sua terra e segregata.
L’ebreizzazione degli arabi palestinesi e la conseguente nazificazione degli ebrei israeliani, così come la fascistizzazione del sionismo, sono tutti costrutti di matrice sovietica regalati agli arabi come armi di propaganda.
Nulla è cambiato in questo senso, quello che è cambiato nel corso di ormai quasi sessant’anni è la fonte del sostegno alla “causa palestinese” la quale si è progressivamente spostata da oriente ad occidente.
Il paradosso è questo.
Non sono più, in maggioranza, gli stati arabi i principali sostenitori della “lotta di liberazione” palestinese, ma paesi europei, istituzioni sovranazionali create dagli Stati Uniti come l’ONU, il circuito culturale-mediatico occidentale e gli Stati Uniti stessi.
In questi ormai sei mesi di guerra a Gaza le maggiori e più virulente manifestazioni di piazza contro Israele, nel corso delle quali è stato scandito a più non posso lo slogan genocida nei confronti egli ebrei, “Palestina libera dal fiume al mare”, non hanno avuto luogo al Cairo, ad Amman, a Riad, o in nessun altro paese arabo, ma nelle piazze di Londra, di Parigi, di Milano, di Saragozza, di Los Angeles, di Sydney e nei campus di alcune delle più prestigiose università americane.
Le menti e i cuori delle élite arabe mediorientali, con l’eccezione del Qatar specializzato nel giocare più ruoli in commedia, non sono più da anni appassionate di una questione che per loro ha perso progressivamente rilevanza, in testa a tutti l’Arabia Saudita, pronta, prima del 7 ottobre a un accordo programmatico con Israele sulla scia degli Accordi di Abramo del 2020 voluti da Donald Trump.
Il sostegno saudita alla causa palestinese è mantenuto in vita formalmente nell’appoggio al venire in essere del vecchio feticcio americano di uno Stato palestinese, e così è per la Giordania che non ha alcun reale interesse ad avere come confinante uno Stato potenzialmente jihadista, o per l’Egitto per il quale il radicalismo sunnita è, dalla fine degli anni ’20, un problema costante per il mantenimento del proprio ordine interno. Dagli Emirati nessun sostegno nemmeno formale. C’è in realtà, dietro le quinte, una attesa, ed è che Israele tolga di mezzo Hamas da Gaza, liquidi un attore jihadista la cui eliminazione verrebbe, da tutti gli attori statali citati, salutata con sollievo.
Il venire in essere di uno Stato palestinese, è il pegno da pagare all’opinione pubblica e ai desiderata dell’Amministrazione Biden, ma in realtà si attende l’esito della guerra a Gaza. Il prossimo novembre alla Casa Bianca l’inquilino potrebbe cambiare, e se fosse di nuovo Donald Trump, di Stato palestinese non si sentirebbe più parlare per i prossimi quattro anni.
Hamas può contare veramente per potere restare a Gaza, solo sull’appoggio occidentale, sull’estremismo woke che oggi ha ridato linfa alle proprie istanze, può contare sul radicalismo progressista che dell’estremismo woke è la colonna portante, sulla debacle intellettuale di accademici, scrittori, artisti e opinionisti che hanno fatto propri i totem ideologici forgiati in Russia nel secolo scorso, può contare su Antonio Guterres e su Joseph Borell, sul Vaticano e il suo equiparazionismo, sulle molteplici ONG israeliane ed estere, tra cui spicca Amnesty International, che in questi ultimi decenni hanno rappresentato Israele come uno Stato criminale, può contare su studenti universitari dal cervello lobotomizzato che chiedono alle loro università compiacenti di interrompere i rapporti con Israele, può contare su di loro concretamente, mentre, in Medio Oriente, Mohammed Bin Salman e Abdel Fattah El-Sisi aspettano che a Gaza Israele concluda per loro conto il lavoro sporco.