Erano le 11:30 del mattino del 7 gennaio quando due individui mascherati, armati di fucili d’assalto AK-47, hanno preso in ostaggio la disegnatrice Corinne Rey, le hanno ordinato di digitare il codice numerico della serratura elettronica e sono entrati nella sede della rivista satirica e irriverente Charlie Habdo, aprendo il fuoco all’impazzata contro direttore, vignettisti, dipendenti.
I due terroristi si sono dichiarati affiliati di Al-Qaeda e durante la strage hanno ripetuto ad alta voce “Allahu Akbar”, “Allah è grande”. Un attentato di matrice islamista.
Crivellate di colpi e uccise dieci persone: il direttore del Charlie Hebdo, Stéphane Charbonnier detto Charb; i vignettisti Jean Cabut detto Cabu, Bernard Verlhac detto Tignous, Georges Wolinski, Philippe Honoré; il curatore editoriale Mustapha Ourrad; la psichiatra ed editorialista Elsa Cayat; l’economista Bernard Maris; l’addetto alla manutenzione Frederic Bousseau; il carnettista Michel Renaud.
Altre due vittime si aggiungono subito dopo: Frank Brinsolaro, addetto alla sicurezza della sede del Charlie Hebdo e guardia del corpo personale del direttore Charb, e Ahmed Merabet, poliziotto ucciso con un colpo alla testa, mentre era a terra ferito, durante la fuga degli assassini. Il video dell’esecuzione di Ahmed, che implora pietà ma viene freddato, farà il giro della rete. I due, completata l’opera, scappano a bordo di una Citroen C3 nera.
Dodici morti.
I responsabili della strage, i fratelli Chérif e Said Couachi, verranno uccisi dalla polizia francese due giorni dopo, assieme ad un altro terrorista, Amedy Coulybaly, che si renderà responsabile dell’uccisione di una poliziotta l’8 gennaio e del massacro in un supermercato kosher il 9 gennaio. Un’organizzazione coordinata, quella di Coulybaly e dei fratelli Couachi, che per due giorni terrà in scacco la Francia, facendola vivere nel terrore.
La campagna “Je Suis Charlie” sui social network, per solidarizzare con le vittime e stigmatizzare l’attentato, è durata qualche giorno. Qualcuno l’ha contestata perché, in fondo, il Charlie Hebdo era una rivista sì satirica, ma non faceva ridere. Offendeva le religioni, tutte. Non aveva rispetto.
Dichiaratamente comunista, la rivista è stata definita in tutti i modi negli ultimi anni, persino con l’appellativo “Neocon”.
Pochi giorni dopo l’attentato è diventata virale una bufala, una falsa vignetta del Charlie Hebdo offensiva nei confronti dell’Italia. Non era vera, ma anche se lo fosse stata non ci sarebbe stato nulla di male nel condannare l’attentato.
Forse la campagna “Je Suis Charlie” poteva essere considerata ipocrita e poco spontanea, ma un anno dopo non è rimasto più nulla, solo un nome sbagliato in una lapide commemorativa.
Ad un anno di distanza, se non altro sappiamo che i vignettisti del Charlie Hebdo non erano Neocon islamofobi che se la sono cercata perché “provocavano”: altri episodi hanno insanguinato la Francia, tra cui l’orrenda strage del Bataclan a novembre.
Je Suis Charlie voleva semplicemente dire siamo per la libertà di satira, contro il terrorismo. E ci siamo schierati in questa guerra di civiltà.
Pensateci.
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