Islam e Islamismo

Il capondrangheta di Ramallah e il Vangelo

Mahmud Abbas, il capondrangheta di Ramallah, sosia e omologo del defunto capobastone della ‘ndrangheta Giuseppe Piromalli, ha nuovamente espresso le sue tesi, questa volta all’Onu, in quello che la scrittrice americana Chynthia Ozick ha  giustamente definito “il più vergognoso covo di antisemiti al mondo”.

Le agenzie di stampa ci informano che il signor trenta per cento, come viene chiamato Abu Mazen  nel suo stesso mandamento, per via della mazzetta che egli  chiede a chiunque voglia anche solo pensare di disegnare una finestra nel feudo dell’Autorità nazionale palestinese, ha dichiarato con tono mesto, addolorato e cupo che “Riconoscendo Gerusalemme come capitale d’Israele, gli Stati Uniti hanno insultato milioni di persone e anche la città di Betlemme”. אוי ואבוי. Oi va voi!  Il duraturo capocosca ha quindi manifestato l’orgoglio suo e della sua comunità per il fatto di vivere in una terra, palestinese, s’intende, che ha dato i natali a così tanti uomini santi, a profeti, e ovviamente a Gesù, noto arabo palestinese in keffiah, si capisce!  L’auspicio del cittadino onorario di Napoli e Pompei  è quindi che il mondo voglia fermare questa dissacrazione del Natale, quest’oltraggio dei sionisti, ovvero degli ebrei, alla tradizione islamico-cristiana supportata dalla storia e persino dalle pietre. Come assicurò infatti qualche decennio fa un gran muftì della zona, “non una sola pietra testimonia della presenza degli ebrei in questa terra”.  אױ װײ. Oy vey!        Non a caso ce lo ricordiamo, “il più grande delinquente del ventesimo secolo”, Yasser Arafat, appena stanato da Tunisi  e riapprodato in Medioriente a riorganizzare in loco la strategia del terrore, assistere bavoso e sorridente alla messa di Natale a Betlemme, a fianco della moglie Suha, figlia della banchiera cristiano-araba Raimonda Hawa Tawil, che teneva in braccio  e cullava raggiante la loro piccola unigenita, nata davvero per miracolo, dal momento che il raìs, travestito sempre da combattente senza mai aver partecipato a una battaglia, aveva ogni volta tenuto a precisare, persino in punto di nozze, che lui era sposato con la Palestina, anche se di tanto in tanto non disdegnava di minacciare con la pistola alla tempia qualche bel giovane poliziotto del suo staff che si fosse permesso di sottrarsi alle sue voglie estemporanee. Per non parlare dei ragazzini rumeni estratti a forza dalle fogne di Bucarest e usati dai Servizi segreti di Ceausescu come esca di ricatto sessuale verso un pericoloso concorrente sulla ribalta della solidarietà rivoluzionaria. Uno che “il genio dei Carpazi”, “Il Danubio del pensiero”, non sopportava per rivalità, per invidia e chissà, forse anche per intolleranza epidermica a quel continuo sputacchiare, toccare, abbracciare, ringhiare, promettere in questo modo di liberare la Palestina dal Fiume al Mare.



Quella volta fu l’allora patriarca latino di Gerusalemme, monsignor Michel Sabbah, a salutare la presenza di Arafat come una radiosa stella cometa apparsa nel cielo della Basilica della natività, destinata a rifulgere sull’islamizzazione di Betlemme, con quei quattro coloni giudei sempre là a piangere, a insidiare le pietre cristiano-islamiche, se non fosse per l’Unesco.  Era il 1995, e si sa che poi vennero invece anni bui, con Arafat bloccato alla Muqata, nel bunker hitleriano, dove, al lume di candela a causa del taglio della luce da parte dei sionisti, riceveva file di visitatori provenienti da ogni dove, straziati e partecipi del suo ingiusto stato di detenzione; che insomma, se uno ulula, a ogni attentato, a ogni strage, che “milioni di piccoli shaid sono pronti a marciare su Gerusalemme”, e questo mentre sua figlia fa shopping milionario a Parigi, insieme alla flavescente Suha che anche lei esprime tutta la sua ammirazione per i martiri minorenni della Palestina, basta che la propria creatura non venga convocata, non è mica colpa sua. Questi israeliani da sempre adusi “all’uso sproporzionato della forza”, cui Massimo degli Ulema spiegò con maligna consapevolezza che “quando hai trecento milioni di persone, tutt’intorno, che ti odiano, inutile sperare nell’esercito più forte del mondo”,  questi ebrei che mica si ricordano di quando non erano che scarafaggi del ghetto, non permisero allora  di partecipare alla messa di Natale a Betlemme al nipote del gran muftì Hamin Al Husseini, quello là con gli occhi azzurri, graditi a Hitler, che si era fatto promettere dal Führer di essere scelto come consigliere per l’attuazione  anche in Palestina della Endlösung der Judenfrage, della Soluzione Finaledellla questioneebraica.

Ma sì, liberiamo la dialettica antisemita, liberiamola, finalmente, con ‘sto Auschwitz che “un se ne pole più”, come si dice a Livorno.   E se una leggeva che anche il deputato Claudio Fava e il giudice Peppino Di Lello si erano messi in fila alla Muqata, per visitare il raìs, diceva con le mani fra i capelli – Non è possibile. Vada per un giornalista orfano di Giuseppe Fava, di un uomo che pagò con la vita la sua battaglia contro i violenti, i corrotti, i complici e i protettori dei mafiosi, vada per l’ideologia traballante di un cronista allettato dalla politica, ma un giudice! Un magistrato del maxiprocesso a Cosa Nostra, a una cricca smisurata di assassini, che si recava ora alla Muqata, dal capo delinquenziale di quello che lo stesso amico e portavoce di Rabin, Eitan Haber, definì  “un regno virtuale della menzogna dove ogni funzionario, da Arafat ad Abbas  in giù, passa le giornate a mentire ai giornalisti occidentali”.

Com’è possibile che un giudice vada là, alle porte di quel regno della menzogna e del delitto, e si metta in fila per visitare il capo dei capi con keffiah e lupara. Forse che Salvatore Riina  in persona non si era definito un “perseguitato in fuga come un ebreo, così come ora la cosa più in malafede del mondo era paragonare i palestinesi agli ebrei e gli ebrei ai nazisti?  Com’era possibile che un giudice, un mensch, un essere umano completo volesse autoingannarsi e ignorare le parole di Giancarlo Pajetta, secondo cui “proprio per la loro storia i comunisti europei avrebbero dovuto capire” quale razza di enorme inganno si erga dietro la lotta degli arabi contro gli ebrei? Com’era possibile!  E sembra che la cronista, tra un bambino divenuto grande e l’altro, sia ancora là a farsi quella domanda con uno sgomento nel cuore più fitto delle tenebre della Muqata, più grande di quell’oscurità delle coscienze che persino il giudice Peppino Di Lello si illudeva di illuminare reggendo insieme ad altri il moccolo della candela del falso guerrigliero Yasser Arafat.

E poi ancora venne l’asserragliamento dei miliziani palestinesi dentro la Basilica della Natività. I frati francescani che insomma, aiutati dai vignettisti, non potevano certo assistere imparziali alla scena del nuovo bambinello Gesù palestinese assediato da un esercito di giudei di duemila anni dopo, e lo davano a intendere. Il Vaticano, mai rassegnato a mettere veramente da parte la inimica teologia del verus Israel, emetteva comunicati stampa in cui condannava l’orrore e la barbarie di questi israeliani diretti discendenti di quelli che non vollero riconoscere il messia, con il più sconvolto di tutti, Joaquin Navarro Vals, che però manteneva l’aplomb inflessibile e gelido  con cui suggerire agli israeliani, agli ebrei, di togliere l’assedio alla mangiatoia e di lasciare che, duemila anni dopo, si realizzasse la pace. Era compito di Bashar Al Assad, il leone alawita che aveva ereditato dal padre carceri, torture  e pena di morte per gli oppositori, dire fuori dai denti al pontefice Karol Wojtyla che “gli israeliani stanno facendo ai palestinesi quello che fecero a Gesù duemila anni fa”.    Con il pontefice curvo, silente, un silenzio pari a un macigno, a una di quelle pietre del Muro del Pianto dove poco prima era andato a infilare bigliettini sotto il battito di ali delle colombe bianche.

Anche in quel caso alla cronista toccava arrivare di primo mattino in una redazione dove c’era gente intelligente e chiedere, “Ma vi rendete conto?”. Le toccava rievocare il bombardamento dell’Abbazia di Montecassino da parte degli Alleati in cerca, durante la seconda guerra mondiale, delle pattuglie tedesche e, semmai, fare l’unico paragone possibile fra i civili sorpresi dalle bombe nell’abbazia e quel ragazzino palestinese che era corso fuori a più non posso dalla basilica a Betlemme e si era consegnato ai soldati israeliani per non restare in mezzo a quella pletora di vigliacchi e ai loro ostaggi  in tonaca compiacenti. “Vi rendete conto?” chiedeva la cronista a colleghi  e colleghe intelligenti, vedendoli sospirare, sorridere dolcemente, con amarezza, poiché essi sì, si rendevano conto.

Si sa che il delinquente internazionale Yasser Arafat morì a Parigi, non di Aids, come conferma a ogni occasione il suo medico, ma avvelenato dai sionisti con il polonio, come insistono la vedova di stanza a Malta e lo stesso Abu Mazen, che invece non si muove da Ramallah da allora, da quando, mentre il raìs era già con un piede nella tomba, egli si contendeva con la bionda figlia della banchiera Raimonda  il bottino di milioni di dollari non ancora  dirottato nelle casse personali del padre della Palestina libera. Cosa fino ad allora puntualmente avvenuta con gli aiuti destinati a un popolo che quel padre imbroglione e ladro lo amava, lo piangeva, se ne lasciava spogliare e tenere nel fango.




Per giorni Mahmud Abbas e Suha Tawil minacciarono di rifiutarsi di staccare la spina del respiratore artificiale cui era attaccato Arafat, senza prima aver raggiunto un accordo sui miliardi. Il polonio, anche il fantomatico polonio  degli israeliani era là, a prestarsi alla contesa della moglie e del successore del terrorista che amava farsi ritrarre con l’effigie dell’aquila imperiale alle spalle.

Quel successore, tesoriere del massacro degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972, si era laureato all’università di Lumumba a Mosca con una tesi sul numero assai ridotto degli ebrei sterminati nella Shoà, numero senz’altro ingigantito dai perfidi e furbi giudei per giustificare l’aberrante colonizzazione sionista dopo una semplice disgrazia peraltro voluta dagli stessi ebrei, che si erano messi d’accordo con Hitler e avevano organizzato il loro olocausto, di certo più esiguo, per il numero di vittime, di quello che andavano sostenendo, e comunque da loro stessi ideato e perseguito con un Führer soggiogato dai loro piani diabolici.

A quel tempo le tesi di Abu Mazen erano queste. Poi, tra una strage e l’altra  a opera dei liberatori della Palestina in Israele e  in giro per il mondo, vennero le scuole, le piazze e le targhe per gli eroi della morte comminata agli ebrei. Di tanto in tanto una piccola sortita dell’universo personale, come quando il cittadino onorario di Napoli e Pompei, nato a Safad, in Galilea, denunciò all’opinione pubblica internazionale l’orrendo misfatto di una banda di rabbini che avevano fatto cordone all’ingresso della sacra città cabalista per impedirgli  di tornare a casa, di visitare anche solo una volta la città da cui  egli era dovuto fuggire.

La cronista all’epoca abitava a Safad, in via Shimon Bar Yochai, in una piccola casa che dava sulle montagne di Meron abbagliate dai colori rossi dei tramonti.  Una mattina lei uscì fuori e percorse tutta Rechov Yerushalaym, sino a giù, sino in fondo, sino alla stazione degli autobus. Tornò indietro, fece la strada del gesher, del ponte, chiese alle amiche se per caso loro avessero visto, in quei giorni, una banda di rabbini che faceva cordone per impedire a Mahmud Abbas di tornare anche solo una volta, una volta soltanto, a Safed. Niente. Di rabbini che si tenevano per mano a guisa di cordone, per impedire al successore di Arafat alla guida del mandamento mafioso di Ramallah di accedere alla città della luce e della visione cabalista, neanche l’ombra. O forse sì. L’ombra dell’immaginazione antigiudaica, di quello zolfo di code e di corna che si autoproduce in una mente refrattaria alla cognizione e disposta invece a rimanere aggiogata ai miti della propria condizione non libera per scelta.

Di recente Mahmud Abbas, sempre impegnato nell’esortare i giovani del suo feudo e anche quelli di altri mandamenti islamici a correre a liberare con il coltello il sacro suolo di Al Aqsa infestato dai giudei, che lo “insozzano coi loro luridi piedi”, è stato applaudito da un Parlamento europeo in estasi e in piedi, mentre egli riferiva di come un’altra banda di rabbini, o forse quella stessa, avesse dato ordine agli ebrei di avvelenare le falde acquifere e i pozzi dei palestinesi.

Oggi le agenzie di stampa ci informano delle sue dichiarazioni all’Onu sull’insulto che questi impenitenti giudei rivolgono, tramite gli Stati Uniti, alla città di Betlemme e a  milioni di persone, comprese quelle migliaia di arabi cristiani costretti ad andarsene dall’Autorità Nazionale Palestinese, da quel regno virtuale della menzogna e dell’inganno, o da Gaza, perché perseguitati e dominati  a causa della loro fede, una fede, senza dubbio, arabo-palestinese.  E il mondo sta lì. Il mondo tace, come ci ha raccontato Elie Wiesel. O meglio, si alza in piedi e applaude alla menzogna, all’inganno. Senza memoria, senza amore, con perdizione e ignavia.

Il capobastone di Ramallah attinge al Vangelo. E non più a quello stalinista di José Saramago, che da Ramallah, in fila anch’egli alla Muqata, scriveva che là c’era Auschwitz, non c’erano camere a gas ma c’era Auschwitz. La liberazione della dialettica antisemita dopo Auschwitz individuata dalla prima presidente del Parlamento europeo, Simone Veil,  per la cui scomparsa, nel giugno scorso, Abu Mazen fece le condoglianze alla Francia  da cui gli ebrei partono perché ogni giorno inseguiti dal grido propalestinese ” La Mort aux le Juifs”, senza sapere neanche chi lei fosse stata, in realtà, e  che era stata lei, sopravvissuta alla Shoà, allo sterminio negato nella tesi di laurea dell’uomo di panza di Ramallah, a vedere nella lotta palestinese e filopalestinese la disinibizione, ancora una volta nella storia, dell’animo, del sentire e della cultura antisemiti.



Abu Mazen oramai attinge all’evangelo cristiano, ai pastori, alle capanne, al presepe universale modello Betlemme, messo in pericolo dalle trame degli ebrei spalleggiati dagli Stati Uniti che insultano i fedeli della religione islamico-cristiana. Persino San Gennaro e la Madonna di Pompei sono in ansia dopo le parole accorate  e responsabili del loro concittadino onorario, quell’angelo della pace del Natale dei poveri, dotato di  villa residenziale a Ramallah con più cemento armato delle fortezze dei Piromalli nella Piana di Gioia Tauro.

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