Da oggi la nuova tranche di sanzioni contro l’Iran da parte degli Stati Uniti diventerà effettiva. Il settore economico, marittimo e soprattutto bancario della Repubblica Islamica sarà messo sotto quella che Mike Pompeo, il Segretario di Stato americano, ha chiamato “massima pressione”.
Le nuove e più pesanti sanzioni americane interesseranno anche quei paesi che acquisteranno il greggio con l’eccezione temporanea (si parla di un periodo di sei mesi) di otto paesi non specificati, tra cui dovrebbe esserci, secondo indiscrezioni, l’Italia. Tutto ciò fa parte della strategia di ampio respiro che l’amministrazione Trump ha iniziato a mettere in atto il 6 dicembre scorso, decidendo l’uscita degli Stati Uniti dal JCPOA, l’accordo sul nucleare iraniano fortemente voluto da Barack Obama e presentato al mondo come uno dei più importanti conseguimenti di politica estera della sua amministrazione.
Il plauso di Israele non si è fatto attendere. “Per molti anni ho speso il mio tempo e la mia energia nella guerra contro la minaccia iraniana” ha dichiarato Benjamin Netanyahu. “Su questa questione mi sono scontrato praticamente con tutto il mondo. Oggi vediamo i risultati di questa persistente lotta”.
Nel marzo 2015, in piena campagna elettorale, Netanyahu volò a Washington per tenere al Congresso un discorso assai applaudito e al contempo criticatissimo dall’opposizione interna di Israele, in cui metteva in guardia dal pericolo maggiore, “il matrimonio tra l’estremismo islamico e la bomba nucleare“. L’insuccesso di allora, nell’impedire che l’accordo andasse in porto è vendicato dal successo di oggi. Non solo gli USA sono usciti da quello che sia Trump che Netanyahu consideravano un accordo pessimo e pericoloso, ma ora, con il ripristino delle sanzioni, l’Iran viene fortemente colpito economicamente. Da maggio il rial iraniano ha perso più di due terzi del suo valore di acquisto assestandosi a quota 145,000 rial per un dollaro rispetto ai 40,500 di un anno fa.
La determinazione americana di colpire l’Iran frontalmente è la conseguenza della principale priorità americana in Medioriente, indebolire il regime di Teheran al punto da costringerlo a rinunciare alla sua politica espansionistica, e nella migliore delle ipotesi portarlo a un tavolo negoziale alle condizioni degli USA. In questo senso si spiega la tecnica del bastone, l’uscita dal deal, le sanzioni, e quella della carota, il blandimento di Trump verso il regime per tornare alle trattative.
E’ la tecnica preferita di Trump. Mettere gli avversari con le spalle al muro, non attraverso l’uso della forza militare (opzione comunque sempre presente sullo sfondo), ma attraverso l’esercizio senza sconti del proprio potere. E’ una tecnica vecchia di millenni di cui la più lucida e franca esposizione è quella espressa da Tucidide nel dialogo tra gli Ateniesi e i Meli ne La Guerra del Peloponneso, quando Tucidide fa dire all’ambasciatore ateniese che “I potenti fanno quello che possono e ai deboli tocca dichiararsi d’accordo”.
E’ questa priorità a cui sono subordinati anche altri scenari come quello del conflitto arabo-israeliano o israelo-palestinese. E’ ormai palese che gli stati arabi sunniti sono tatticamente convergenti con Israele e gli USA nel considerare l’Iran la principale minaccia per la stabilità regionale. La recente visita di Netanyahu in Oman, il fatto che agli ultimi campionati di judo tenutasi ad Abu Dhabi sia stata suonato per la prima volta l’inno israeliano per la medaglia d’oro del judoka Sagi Muki dopo che l’anno scorso, il suo collega Tal Flicker, vincitore dello stesso trofeo, fu costretto a cantare l’inno senza accompagnamento musicale, le dichiarazioni del principe Mohammed Bin Salman di qualche mese fa relative al diritto di esistere di Israele, sono tutti segni inequivocabili. Non si tratta di improvviso ardore, ma di puro realismo politico.
Per l’Arabia Saudita e la costellazione degli emirati arabi, Israele è un asset e non un problema e la questione arabo-palestinese diventa un fatto periferico che scalda soprattutto gli animi dell’Iran, oggi il principale finanziatore di Hamas, e dell’Unione Europa, da decenni sponsor dell’Autorità Palestinese, quest’ultima sempre meno rilevante per il venire in essere di un eventuale accordo di pace. Abu Mazen lo ha capito perfettamente, da qui il suo livore e la sua frustrazione. La sponda di cui può godere da parte degli stati sunniti è solo formale. Quando il piano di pace che l’amministrazione Trump ha predisposto vedrà la luce, dalla Mecca e dintorni verrà nei suoi confronti una intimazione precisa, acconsentire.