Islam e Islamismo

Bernard Lewis, le donne nel mondo islamico e quello spartito misogino da riformare

Bernard Lewis, considerato uno degli studiosi più autorevoli sul Medio Oriente, nel libro scritto poco prima dell’11 settembre 2001 What Went Wrong? The Clash Between Islam and Modernity in the Middle East (Il suicidio dell’Islam. In che cosa ha sbagliato la civiltà mediorientale, Mondadori, Milano, 2002), nell’analizzare il declino della civiltà mediorientale dal XVII secolo (trattato di Carlowitz) ad oggi, ha individuato nella condizione delle donne all’intero della società islamica la ragione principale del mancato sviluppo del mondo arabo-musulmano. Lewis scrive: «il maggior colpevole sta nell’aver relegato la donna in posizione di inferiorità, ciò che priva il mondo islamico dei talenti e delle energie di metà del suo popolo e condanna l’altra metà a essere allevata da madri illetterate e oppresse. Da qui nasce una popolazione arrogante o sottomessa e non adatta a una società libera e aperta». Ed è proprio osservando le donne musulmane, specialmente quelle che vivono in Occidente, in paesi liberi e laici, in cui avrebbero (hanno) la possibilità di emanciparsi, allontanandosi dal giogo onnicomprensivo dell’islam, che si può capire meglio quanto quella islamica sia, più che una religione, un’ideologia totalitaria. Asfissiante.

Con la sola eccezione di quelle Donne (purtroppo poche rispetto al totale) che, pur mantenendo un indissolubile legame spirituale/religioso con l’islam e l’orgoglio per le tradizioni del paese di origine, sono riuscite a scrollarsi di dosso tutto ciò che non ha attinenza diretta con la sfera spirituale/privata (perché appunto hanno trovato rifugio all’estero, spesso allontanandosi dalla famiglia/clan di origine, e/o perché sposate con un non musulmano e/o perché persone dotate di unicità caratteriali quali personalità, ambizione, indipendenza, autostima, cultura, coraggio, ecc.), ciò che contraddistingue la maggioranza delle rimanenti è, traducendo il concetto di Lewis ad un livello forse più efficace e da un punto di vista femminile, la totale incapacità di ridere, sognare e decidere autonomamente della propria vita. Ci sono, forse generalizzando un po’ (ma nemmeno tanto), due grandi categorie di ragazze nel mondo musulmano più o meno integrato in un paese laico occidentale: quelle costrette ad indossare il velo dalla prima mestruazione al giorno della morte e quelle cui è concesso di vivere, almeno in apparenza ed in superficie, “all’occidentale”. Le prime hanno un destino segnato fin dall’inizio: il velo copre e annulla, non solo fisicamente, la donna a partire da quando questa è ancora bambina. È però la condizione delle seconde ad essere, nella maggior parte dei casi e quando destinate a sposare un musulmano, anche peggiore. Perché la sottomissione – l’essere relegati “in posizione di inferiorità” all’interno del nucleo familiare – è preceduta dall’illusione.

In quest’ultimo caso infatti l’accettazione del proprio ruolo (di inferiorità rispetto all’uomo) all’interno della famiglia musulmana non è una conseguenza diretta del percorso di vita fin lì intrapreso, ma necessita di un’auto-imposizione. Per rinnegare, dimenticare, condannare il proprio recente passato ed auto convincersi della nuova finzione. È in un certo senso un percorso simile a quello che compiono le persone che si convertono all’islam e che, per una sorta di complesso di inferiorità derivato dal non essere nato musulmano, sentono di dover dimostrare di essere “più musulmani” degli altri (diventando spesso dei fanatici). Con l’aggravante, nel caso della donna cresciuta in un contesto (occidentale) sociale in cui non esiste una discriminazione codificata nei confronti delle donne, della situazione familiare (già musulmana). In sostanza, a differenza del convertito, la spinta al rispetto delle regole per la donna musulmana in questione sarà ancora maggiore in quanto in presenza di parenti (genitori, fratelli, famiglia dello sposo) il cui giudizio è di importanza rilevante per la stessa. Ovviamente – e fortunatamente – questo non avviene per tutte le donne musulmane, così come non esistono solo uomini musulmani che considerano la donna l’elemento debole (inferiore) della coppia. Si provi però, per esempio, a chiedere a dieci preti o a dieci rabbini o a dieci intellettuali laici se è giusto oppure no, in determinate situazioni, picchiare, al fine di “educare”, la propria moglie. Lo si chieda poi a dieci imam.

Il cambiamento appena descritto – una sorta di ritorno alla religione musulmana, dopo aver goduto delle libertà e della parità dei sessi del mondo in cui sono cresciute – avviene (là dove avviene) nel passaggio da ragazza a donna pronta a diventare moglie e madre. Fondamentalmente è lo stesso percorso per cui negli ultimi decenni l’uso del velo è ritornato ad essere estremamente diffuso ovunque, non solo in Occidente, ma anche nei paesi musulmani. Il contatto e la commistione, oggi sempre più inevitabili, con le libertà del mondo Occidentale portano le persone più deboli (e poco propense ad abbandonare gli aspetti più arretrati della propria cultura di origine) ad enfatizzare la propria religiosità. È un rinchiudersi in se stessi – arrivando anche ad annullarsi – per paura di perdere la propria identità. Non è un caso se la prima richiesta delle organizzazioni islamiste (dai Fratelli Musulmani fino all’Isis, passando per sedicenti stregoni da avanspettacolo che chiedono l’introduzione della poligamia in Italia) è sempre questa: le donne devono indossare il velo (quando non addirittura il burqa). Perché il velo è innanzitutto lo specchio delle paure e delle debolezze di chi lo vuole imporre.

Un cambiamento del genere, dall’età della spensieratezza a quella adulta, capita a tutte le persone, a prescindere dalla religione. Ma nel mondo islamico questo passaggio è per la donna, come detto, ben più “grave” che altrove. Per la semplice ragione che la religione/ideologia di appartenenza codifica ed insegna la discriminazione ai loro danni. Vedere una donna che si rassegna a diventare ciò che la famiglia (clan), e prima ancora la cultura di origine, le impone di essere – ovvero una donna musulmana a tutto tondo, così come ricordava Bernard Lewis – è davvero una delle immagini più tristi dei nostri tempi. È come guardare una fotografia sbiadita di un volto che si pensava di conoscere: non c’è più un sorriso, ma una maschera; non c’è più il sogno, la scintilla, negli occhi, ma la rinuncia; non c’è più una ragazza allegra e spensierata, ma una donna rassegnata. Il risultato, anche in questo caso, è proprio quello descritto da Lewis: sottomissione (nel presente e nel futuro) e arroganza (nei confronti del passato ormai rinnegato). A prescindere dal fatto che la donna in questione indossi o meno il velo. Perché la questione di fondo rimane la condizione della donna nel mondo islamico. Qualcuno obietterà che in passato le donne in molti paesi musulmani erano più libere ed emancipate. Ma questo dimostra soltanto che, in presenza di una religione/ideologia non riformata e non in grado di confrontarsi con la modernità, che considera la donna un essere inferiore, ogni passo avanti sarà inevitabilmente seguito da un passo indietro. È lo spartito che deve cambiare, non i suonatori. Questi ultimi, anche laddove portino un tocco di modernità, prima o poi passano e scompaiono. Lo spartito rimane a tutt’oggi immutato, così come è sempre stato: misogino.

Non è un caso che, più spesso che altrove, siano le madri e le mogli musulmane a finire per andare a sbattere contro le porte di casa o a scivolare giù per le scale o ad avere un piccolo incidente domestico. Anche in questa rassegnazione a portare i segni di un marito violento sul proprio corpo come fossero “naturali” conseguenze della maturità sta la differenza tra una donna sottomessa e rassegnata e una Donna libera. Ma – per chiudere con una nota triste e sarcastica – in effetti il sorriso sul volto di una donna musulmana, i cui “talenti” ed “energie” sono stati relegati in un angolo, ogni tanto ricompare. Come in uno dei molti video in cui si può assistere alla tipica educazione palestinista: una mamma che sorride compiaciuta vedendo i suoi figlioletti giocare a “Itbach el Yahud” (sgozza l’ebreo), sparando a soldati dell’IDF con finti kalashnikov. Cosa sogni, ammesso che l’abbia mai fatto – per sé e per i propri figli – non è dato sapere. Ma questo è esattamente ciò che Bernard Lewis sottolineava affermando che l’islam «condanna l’altra metà a essere allevata da madri illetterate e oppresse».

Chiudiamo come avevamo iniziato. Con una riflessione dello storico britannico, in relazione al disfacimento degli Stati nazionali del mondo musulmano (una delle cause dell’ondata migratoria che ha investito il mondo Occidentale negli ultimi decenni): «Se i popoli del Medio Oriente continueranno sulla strada attuale, l’attentatore suicida potrebbe diventare una metafora del loro destino […]. Se riusciranno a smetterla con le lagne e il vittimismo, se proveranno ad appianare le divergenze e a coniugare capacità, energie e risorse in uno sforzo creativo comune, potranno di nuovo fare del Medio Oriente un importante centro di civiltà». È bizzarro che a non capire questo aspetto fondamentale siano proprio, qui in Occidente, quelle persone – semidei pronti a caricarsi sulle spalle i peccati e le colpe di tutto il mondo, forse nella speranza autolesionista di morire in croce, per poi risorgere fra qualche decennio su un pezzo di carta – che dicono di avere a cuore l’islam e la pacifica convivenza con il mondo islamico. Paradossalmente, il vittimismo che alimentano e le colpe che si addossano (includendo tutti noi in quei deliri) non fanno altro che aumentare la distanza tra la civiltà occidentale e la civiltà islamica. Civiltà quest’ultima che, in ogni caso, se vuole recuperare il tempo perduto, non può non collocare al suo centro, in condizione di assoluta parità con l’uomo, la Donna. Una Donna libera di decidere della propria vita, libera da tutti i veli – fisici o ideologici – provenienti da un passato ormai sconfitto.

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