Secondo quanto riportato da The Jerusalem Post e, precedentemente, dal quotidiano del Kuwait Al Jarida, sul piatto della bilancia degli accordi che seguono il cessate il fuoco nella guerra civile in Siria potrebbe esserci un compromesso favorevole anche per Israele.
Non è un segreto che Siria, Iran, Turchia e Russia siano le vere vincitrici di questo conflitto. Ma tra le tre, è certamente la Russia di Putin ad avere l’influenza maggiore nelle scelte del dopoguerra. Negli ultimi giorni si sono tenuti una serie di incontri che hanno coinvolto i quattro leader (Assad, Putin, Erdogan e Rohani), con l’obiettivo di discutere il futuro della Siria, il nuovo governo e soprattutto il ruolo che le potenze e le organizzazioni internazionali (in particolare l’ONU) potrebbero avere negli sviluppi della questione siriana.
Ma se Israele non ha mai negato di essere ai ferri corti con la Siria tanto quanto con l’Iran (ovviamente), durante gli ultimi tre anni le divergenze con la Turchia sembrano essersi lievemente appianate. I rapporti erano deteriorati a causa della questione della Mavi Marmara ma sono stati apparentemente recuperati a seguito dell’ingente risarcimento (circa venti milioni di dollari) con scuse annesse inviate da Israele.
Il premier israeliano Netanyahu, in vista della probabile vittoria di questo schieramento nella guerra siriana, non ha fatto altro che tentare di aprire una porta verso gli unici leader che avrebbero mai avuto il coraggio e la “correttezza” di lasciare uno spiraglio aperto anche per gli interessi di Israele.
Forse in molti hanno trascurato il notevole miglioramento delle relazioni di Israele con i paesi arabi lungo tutto il 2016 ed il 2017, ma se tutto questo è venuto a galla lasciando sorpresi gli occhi meno allenati, non dovrebbe invece sorprendere più di tanto il rafforzamento dei rapporti con la Russia di Putin.
I numerosi incontri tra i due leader, complice anche un ben definito ruolo dell’attuale ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman, hanno certamente contribuito a mitigare i timori di Israele circa la presenza iraniana in Siria.
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L’Iran, qualora volesse infastidire Israele direttamente o utilizzando le sue proxies sciite (Hezbollah in primo luogo), si ritroverebbe certo facilitato a possedere delle roccaforti in Siria. Armi, munizioni, mezzi di trasporto e logistica, missili: ogni singolo proiettile iraniano in Siria consentirebbe un vantaggio assoluto per l’Iran, non solo pratico ma anche a livello di deterrenza. Questo perché nessuna nazione se la sentirebbe di attaccarne un’altra a distanza, sapendo di avere il fucile puntato contro proprio alle proprie spalle. La reazione di Israele è assolutamente assimilabile (anche se in versione insonorizzata) a quella degli Stati Uniti durante la crisi missilistica di Cuba, che portò successivamente allo smantellamento degli Jupiter statunitensi che, dall’Italia e dalla Turchia, stavano minacciando l’Unione Sovietica.
La distanza può fare la differenza tra un missile a corto raggio e un Sejiil con una gittata di 2500 Km, dove il lancio del primo sarebbe facilmente attribuibile ad Hezbollah o a qualche milizia sciita senza destare troppi sospetti, mentre il secondo costerebbe all’Iran una responsabilità e una “Massive Retaliation” non indifferente.
Il rifiuto di Gerusalemme ad acconsentire che l’Iran si stabilizzi in Siria, o meglio nella parte siriana confinante con Israele, è dunque arrivato alle orecchie Putin già da diversi anni. Se il disinteresse di Putin fosse stato netto gli incontri si sarebbero interrotti, invece non solo sono continuati, ma riceviamo spesso notizie di meeting telefonici tra Netanyahu e Putin ad ogni cambiamento rilevante nella zona calda di confine.
Viene da pensare che Putin stia cercando di stabilizzare la zona anche concedendo ad Israele il beneficio di una certa tranquillità: se così fosse (non ne abbiamo la certezza), allora il primo passo da fare sarebbe convincere Assad che la presenza di Rohani in Siria vada notevolmente ridotta.
Qui torniamo a ciò di cui si sta parlando oggi, ovvero una probabile proposta di Assad fatta a Putin ma certamente diretta verso Israele. L’accordo è il seguente: Damasco accetterà di mantenere demilitarizzato il confine sul Golan fino a 40 km di distanza dallo stesso. In cambio chiede che Israele non sia più coinvolto nella lotta alla caduta del suo stesso regime.
Anche se il regime alawita non è certo quello che appoggia maggiormente gli interessi di Israele nella regione e anche se lo stato ebraico preferirebbe confinare con un governo meno connesso all’Iran, il fatto di non essere mai intervenuti contro la Siria (ad eccezione di alcune frizioni poco rilevanti nel grande quadro della guerra) potrebbe oggi lasciare spazio ad un nuovo spiraglio per mantenere la pace tra le due nazioni.
Se ad oggi Assad è convinto che l’unico ostacolo contro la ripresa del potere sia Israele, le preoccupazioni di Gerusalemme riguardano principalmente la presenza iraniana, non tanto un nuovo governo guidato da lui.
Potrebbe essere dunque un sì quello di Netanyahu: “non proveremo a far cadere il governo, ma vogliamo l’Iran lontano dai nostri confini”. Accettare l’accordo potrebbe rivelarsi una mossa saggia, anche definendo meglio la questione della presenza di Hezbollah.
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Per una volta, il “culto della personalità” di Assad e l’ossessione di voler mantenere il potere potrebbero volgere a favore di Israele. Un accordo di non belligeranza e di non interferenza negli affari sottoposto all’unica, difficilissima, condizione di far abbandonare definitivamente la Siria all’esercito iraniano.
Se anche la posizione della Russia – l’attore esterno attualmente più rilevante nella regione e l’unico, paradossalmente, a possedere (per ragioni storiche, economiche, culturali e… scientifiche) un’influenza sulla Repubblica Teocratica tale da farla “rigare dritta” – fosse favorevole a questo accordo, o a qualsiasi accordo simile, allora potremmo considerarci soddisfatti del lavoro svolto da Netanyahu in questi tre anni.