Il regno dell’omicidio di massa di Bashar Assad ha due azionisti principali. Si tratta di Hassan Rouhani e di Vladimir Putin. La Siria, devastata da una guerra che è iniziata nel 2011 e ha prodotto finora 400,000 morti e undici milioni di sfollati, è diventata un’ottima occasione per incrociare lucrosi interessi e consolidare rendite di potere. L’Iran è il principale sponsor mediorientale del dittatore genocidario di Damasco e un ottimo cliente della Russia che lo rifornisce di armi, mentre quest’ultima, vecchia alleata della Siria, ha una preciso interesse geopolitico nel trovarsi sul teatro di guerra, lo sbocco nel Mediterraneo offerto dal porto di Tartus e, naturalmente, basi militari strategiche.
L’incapacità di Obama di gestire la crisi siriana ha consentito a Putin di aprirsi un varco in Medioriente e consolidarvi il proprio potere propagandando “la lotta all’IS”, ormai diventato nell’immaginario collettivo il condensato del male assoluto, come la ragione principale della sua presenza. Allearsi con un criminale sostenuto da uno stato terrorista allo scopo di sconfiggere i “cattivi” veri, ha aperto per molti, in occidente, una linea di credito nei confronti dell’autocrate russo “rispettato” anche da Donald Trump al quale, si spera presto, qualcuno spiegherà che l’Iran è molto più pericoloso per gli interessi americani di quanto lo sia il neo-califfato di Al Baghdadi.
Intanto, da un report di Amnesty International, apprendiamo che dal 2011 al 2015, 13 milia presunti oppositori del regime di Assad sono stati impiccati nel carcere di Saydnaya dopo essere stati prima torturati. I cadaveri, poi, sono stati gettati in fosse comuni. La prassi non si è mai fermata, e mentre i raid aerei russi lanciati indistintamente contro le milizie di Al Qaeda e i ribelli nazionalisti, tutti, infondo, nemici del cliente Assad, e quindi meritevoli di essere annientati, sono proseguiti indisturbati, anche l’industria dell’omicidio di Saydnaya non sembra essersi fermata. Nessuna indignazione, naturalmente. Non ci sono foto che testimoniano l’inferno del carcere, come quelle dei soprusi commessi da alcuni soldati americani a Guantanamo, che all’epoca provocarono reazioni di rigetto. Ma sì sa, gli Stati Uniti, quando sbagliano, hanno un posto di rilievo nel coro di indignazione collettivo.
L’omicidio di massa messo in atto in Siria dal regime di Assad e dalla Russia, con la complicità iraniana, è, tutto sommato, tollerabile quando si pensa che i killers sono lì per sgominare il male nero del baubau islamista, e dunque con loro si può parlare, come pensa Trump.
Parlare per ottenere cosa? Che Putin molli la presa in Siria svincolandosi dall’Iran in nome di una mano libera nell’Europa orientale? Non sembra essere davvero a “good deal”, oltretutto sarebbe assai difficile fare digerire un simile scambio corleonese al Congresso, senza parlare, naturalmente, dell’opinione pubblica mondiale. E se America deve essere First lo dovrà essere soprattutto nei confronti di chi la vede come il nemico principale, l’Iran in testa.
Non si vede davvero come possa Trump accordarsi con il “rispettato” Putin e su che cosa. La tragedia della Siria è l’emblema della pavidità e della sostanziale indifferenza dei regimi liberali, in primis degli Stati Uniti, riguardo alla più grande crisi umanitaria degli ultimi decenni. L’Iran sbeffeggia Trump, dichiara bombastico che in cinque minuti è in grado di raggiungere Tel Aviv con i suoi missili e colpire 36 diverse basi militari americane mentre il rispettato Putin gli tiene bordone. Intanto Assad, ben protetto dai suoi sponsor, fortifica la propria resistenza sanguinaria nella roccaforte di Damasco.