Su questo giornale, in una intervista del 9 maggio scorso, Daniel Pipes, uno dei maggiori esperti internazionali di Medio Oriente, a proposito dell’atteggiamento di Donald Trump mei confronti di Israele fece la seguente previsione, “Trump sta imparando lungo la strada e non abbiamo idea dove lo porterà il suo apprendimento. Si possono supporre scenari in cui da un atteggiamento molto amichevole nei confronti di Israele potrebbe passare a un atteggiamento molto ostile con tutto quello che c’è in mezzo. Se devo fare una previsione, mi aspetto una moderata ostilità”.
La decisione di non spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme come era stato annunciato in campagna elettorale, in realtà sorprende poco. La proroga di sei mesi firmata da Trump ripete per la trentaseiesima volta il gesto dei suoi predecessori e riporta alla mente quello che l’allora ambasciatore israeliano a Washington, Yitzhak Rabin si sentì dire da Gerald Ford, favorevole al trasferimento quando era membro del Congresso, una volta diventato presidente, “Dallo Studio Ovale le cose si vedono in modo diverso”.
Il riallineamento dell’Amministrazione Trump sulle posizioni tradizionali degli USA riguardo al conflitto arabo-israeliano è un fatto ormai evidente. Nel suo viaggio in Israele il presidente americano ha esplicitamente riaperto la prospettiva dei negoziati spandendo sugli interlocutori un luminoso quanto immotivato ottimismo. Basta davvero la benevola e interessatissima accoglienza riservatogli a Riad dalla casa regnante saudita, bramosa di rinsaldare il suo storico legame con Washington per inaugurare cieli azzurri in cui appaiono colombe? I sauditi come brokers di una eventuale pace appaiono assai improbabili, come lo furono già nel 2002 e nel 2007 con un piano promosso dalla Lega Araba che prospettava per Israele il rientro di milioni di rifugiati palestinesi e il ritiro dalle alture del Golan.
A seguito del mancato trasferimento dell’ambasciata, la Casa Bianca ha diramato uno scontato comunicato in cui si afferma l’alleanza con Israele e il semplice differimento del trasferimento, considerato poco opportuno al momento. Il contrasto con le posizioni espresse dal governo Netanyahu è difficile da nascondere anche dietro la giuliva facciata del presidente americano “ritrovato” dopo il protratto inverno del legame con Obama.
Il 14 maggio, un comunicato dal gabinetto Netanyahu, sottolineava senza mezzi termini che il trasferimento dell’ambasciata non avrebbe danneggiato il processo di pace ma avrebbe invece “sanato una ingiustizia mandando in pezzi la fantasia palestinese che Gerusalemme non sia la capitale di Israele”
Giovedì, dopo l’annuncio che Trump avrebbe firmato la proroga Netanyahu stesso ha ulteriormente ribadito il proprio convincimento che mantenere l’ambasciata americana a Gerusalemme non faccia altro che allontanare la prospettiva della pace.
Non può essere dunque più esplicito e netto il disaccordo tra Washington e Gerusalemme su questo punto specifico, con buona pace di quanti, nei mesi scorsi, accusavano Netanyahu di essere troppo morbido sulla questione e di volere remare contro la determinazione di Trump di volere trasferire l’ambasciata.
La previsione di Daniel Pipes sulla moderata ostilità che caratterizzerà in futuro l’atteggiamento dell’Amministrazione Trump nei confronti dello Stato ebraico inizia a trovare qui un primo sostegno. Un altro potrebbe trovarlo nella ripresa del cosiddetto Piano Allen del 2014 formulato per stabilire le condizioni di sicurezza per Israele nel caso in cui smobilitasse dalla Cisgiordania. Il piano, concepito dall’Amministrazione Obama, e che prende il nome dal generale americano in pensione, John Allen, fece dichiarare all’allora ministro della difesa Moshe Ya’alon, che “non vale la carta sulla quale è stato scritto“.
Le rose che, nella mente di molti avrebbero dovuto fiorire tra Israele e Donald Trump, iniziano già a manifestare le prime spine.