“Le storie da incubo del Likud sono ben note. Dopotutto, hanno promesso anche i razzi Katyusha da Gaza. Per un anno, Gaza è stata in gran parte sotto il dominio dell’Autorità Palestinese. Non c’è stato un solo razzo Katyusha. Né ci sarà alcun Katyusha”. –Primo Ministro Yitzhak Rabin, 28 settembre 1995
“Sono fermamente convinto e credo davvero che questo disimpegno … sarà apprezzato da chi è vicino e lontano, ridurrà l’animosità, spezzerà i boicottaggi e gli assedi e ci permetterà di avanzere lungo il sentiero della pace con i palestinesi e gli altri vicini”.- Primo Ministro Ariel Sharon, 25 ottobre 2004.
Se la leadership israeliana persisterà con la sua percezione degli arabi palestinesi in generale, e dei gazawi in particolare, nella veste di potenziali partner in qualche futuro accordo di pace piuttosto che percepirli come essi si percepiscono- quali nemici implacabili, la cui inimicizia verso lo Stato ebraico non è radicata in quello che esso fa ma in ciò che esso rappresenta: non sarà mai in grado di formulare una politica in grado di affrontare efficacemente la continua e intensificante minaccia proveniente dalla Striscia di Gaza.
Il fallimento fatale della saggezza convenzionale
La drammatica escalation di violenza di lunedì – lo stesso giorno in cui Israele ha permesso il trasferimento di 15 milioni di dollari provenienti dal Qatar nell’enclave di Hamas, presumibilmente per alleviare il peggioramento della crisi umanitaria – ha evidenziato la futilità di aderire ai dettami della saggezza convenzionale- secondo cui il crescente aiuto umanitario funzionerebbe per sedare la violenza lungo e attraverso il confine con Israele, o per ridurlo in modo significativo. Di fatto, gli eventi recenti hanno solo evidenziato quanto si siano dimostrati infondati i dogmi prevalenti che dominano il discorso.
Più volte nel corso del conflitto, è stato dimostrato, in modo chiaro e convincente, che la penuria e la privazione non sono la ragione dell’ostilità araba nei confronti di Israele. Al contrario, è l’ostilità araba nei confronti di Israele che è la ragione della prevalente penuria e della privazione.
Quasi inevitabilmente, la costernante recrudescenza della violenza lungo il confine di Israele riporta alla mente il conciso detto attribuito ad Albert Einstein, secondo cui: “Non possiamo risolvere i nostri problemi con lo stesso modo di pensare che abbiamo usato quando li abbiamo generati”.
Dopotutto, i problemi di Gaza sono l’esito innegabile del tentativo mal concepito di imporre a Gaza e ai suoi abitanti una forma di autogoverno. In quanto tale è un problema che non può essere risolto perseverando con lo stesso modo di pensare che lo ha creato. Di conseguenza, la formula fallita dell’autogoverno per Gaza deve essere accantonata, poiché qualsiasi ostinata insistenza su di essa continuerà solo ad esacerbare la situazione attuale e ad estendere la sofferenza sia per gli arabi che per gli ebrei.
Moderazione irresponsabile
È in questo contesto che deve essere valutata la decisione del governo israeliano di astenersi da un’azione militare decisiva a seguito di quasi otto mesi di violenze contro i suoi civili nel Sud, e cioè di non essere solo imprudente ma irresponsabile.
Per comprendere il significato di questa accusa piuttosto dura, dovremmo ricordare che da quando Israele ha abbandonato unilateralmente la striscia di Gaza quasi un decennio e mezzo fa, i suoi nemici sono riusciti a migliorare la portata e le dimensioni del loro arsenale al di là del pensabile. Alla fine di ogni round di combattimenti, il periodo di calma interbellica non veniva utilizzato per sviluppare la loro società e far progredire la loro economia, ma piuttosto per migliorare le loro capacità militari in vista del prossimo round di combattimenti. Se nel 2005, alla vigilia del “disimpegno”, alcuni individui lungimiranti avessero predetto che la realtà sarebbe stata quella che è oggi, i loro avvertimenti sarebbero stati sdegnosamente liquidati come allarmismo infondato”.
Se all’epoca, quando le più formidabili armi in dotazione all’organizzazione terroristica di Gaza erano razzi primitivi con una carica esplosiva fino a 5 kg e una gittata di non più di 5 km, qualcuno avesse detto che nel prossimo futuro tutti i centri popolati israeliani entro un raggio di 100 km sarebbero stati minacciati da armi ad alta traiettoria muniti di testate di guerra fino a 100 kg; se, in quel momento, qualcuno avesse suggerito che Israele sarebbe stata minacciata nel raggio di un’ora da una potenza di fuoco di centinaia di missili / razzi / proiettili, nessuno avrebbe preso sul serio la sua predizione.
Tenace inimicizia strategica
Di conseguenza, sarebbe pericoloso per Israele sottovalutare la gravità del significato strategico a lungo termine di questa tenace inimicizia e delle e sue propaggini più radicali. Di fatto, ogni volta che Israele è riuscita a contrastare una specifica modalità di attività terroristica, gli arabi palestinesi sono riusciti a escogitare dei metodi per superare o aggirare le contromisure israeliane.
Così, quando Israele è riuscita a limitare gli attacchi terroristici attraverso una barriera di sicurezza e posti di blocco fissi e regolamentati, i palestinesi hanno sviluppato le capacità aeree dei razzi in modo da aggirarle dall’alto. Quando Israele ha sviluppato dei sistemi di difesa anti-razzo, i palestinesi hanno iniziato a scavare una serie di tunnel di attacco sotterranei in modo da aggirare quei sistemi dal basso. Quando Israele ha iniziato a costruire una barriera sotterranea da miliardi di dollari per bloccare i tunnel, i palestinesi hanno iniziato a lanciare aquiloni incendiari e palloni esplosivi, per aggirarla dall’alto – e così via.
E’ difficile reputare una eventualità non plausibile la minaccia di attacchi da parte di uno sciame di droni armati di cariche esplosive o peggio-non convenzionali, a cui verrebbe sottoposta Israele in un futuro non troppo lontano. A maggior ragione e in maniera assai preoccupante, se le infrastrutture terroristiche di Gaza verranno lasciate intatte, e non vi è motivo di ritenere che uno scenario del genere, o altrettanto inquietante, non prenderà corpo.
Crescente malcontento nei confronti dell’inerzia del governo
Le ramificazioni di questa duratura guerra giudeocida stanno iniziando a farsi sentire sulla società israeliana. Le manifestazioni di protesta sempre più accese da parte dei residenti delle comunità israeliane vicine al confine di Gaza riflettono la crescente intolleranza verso ciò che è percepita come un’impotenza del governo a reagire alle sfide lanciate dalle organizzazioni terroristiche di Gaza – e come palese fallimento ad assolvere ai suoi obblighi più basilari – e a fornire sicurezza ai propri cittadini. Queste proteste stanno a indicare una crescente riluttanza a sopportare le sempre più gravose condizioni in cui sono costretti a vivere, con la loro economia devastata – in particolare il settore turistico e quello agricolo – la drastica diminuzione dei loro mezzi di sostentamento, i crescenti disagi della quotidianità e i pericoli continui per la loro vita e quella dei loro familiari.
È difficile decifrare la logica strategica – se esiste – che si cela dietro l’attuale politica del governo. A meno che, a conti fatti, per qualche ragione sconosciuta e certamente non specificata, si scommetta sulla trasformazione degli arabi-palestinesi in qualcosa che non sono mai stati da oltre cento anni e che anzi mostrano pochi segnali di diventarlo in un futuro prossimo. E’ difficile comprendere-vista la sua inclinazione per l’inazione-come il governo veda l’evolversi della situazione nel futuro. Nei prossimi vent’anni? Nei prossimi dieci anni?
Scetticismo giustificato
C’è un percettibile senso di scetticismo in merito alle intenzioni del governo riguardo Gaza e alla sua capacità di affrontare adeguatamente le sfide che essa pone. Questo non sorprende affatto per quanto concerne Gaza, poiché quanto affermato all’inizio di questo articolo indica chiaramente che l’opinione pubblica israeliana è stata gravemente fuorviata in passato, visto che le precedenti valutazioni si sono dimostrate ampiamente inaccurate.
È pertanto comprensibile che le criptiche allusioni del governo a motivi altamente riservati, che non possono essere resi pubblici, – per evitare azioni militari punitive su larga scala contro Gaza, in risposta a mesi di violenze – siano state accolte con sospetto.
Le improvvise dimissioni del Ministro della Difesa Avigdor Lieberman, in segno di protesta contro la mancanza di azione da parte dell’Idf, hanno gravemente minato ogni attendibilità riconosciuta ad affermazioni del genere, dal momento che sembra fortemente inverosimile, che proprio Lieberman, fra tutti, non fosse a conoscenza di questi elementi di freno.
In effetti, gli eventi degli ultimi giorni tendono anche a screditare le affermazioni secondo le quali l’intervento militare nella parte meridionale del paese è stato contenuto per focalizzare l’attenzione al nord, considerato come fonte di grave pericolo per Israele. A dimostrazione di ciò, anche contro le centinaia di proiettili piovuti da Gaza, il sistema di difesa missilistico israeliano non è stato in grado di prevenire i colpi diretti contro le abitazioni. Ci si può quindi chiedere come sarebbe andata contro il lancio nel nord del paese di migliaia di altri formidabili missili di cui è dotato l’arsenale di Hezbollah. Pertanto, la logica militare avrebbe imposto l’eliminazione della minaccia minore nel sud di Israele, in modo da non essere affrontata contemporaneamente a quella maggiore proveniente dal nord del paese. D’altronde, se l’infrastruttura militare di Gaza viene lasciata intatta, Israele non può determinare quando potrebbe essere attivatia. Anzi, non è improbabile che ciò possa accadere nel caso in cui a nord scoppino degli scontri.
L’amaro dilemma
Dato il continuo potenziamento delle capacità militari a Gaza, l’irrilevanza degli aiuti umanitari per la stabilità, il crescente malcontento da parte della popolazione civile e le incombenti minacce su altri fronti, la leadership israeliana deve interiorizzare l’amara verità: la soluzione al problema di Gaza è la sua decostruzione, e non la sua ricostruzione. Perché, in fin dei conti, si deve affrontare un dilemma spiacevole, ma inevitabile: alla fine ci saranno arabi a Gaza o ebrei nel Negev. A lungo termine, non ci saranno entrambi.
Traduzione in italiano di Niram Ferretti e Angelita La Spada
Qui l’articolo originale in lingua inglese