“L’inferno è la verità vista troppo tardi”, scrive Thomas Hobbes ne Il Leviatano, il suo capolavoro politico-filosofico. Pochi sono coloro che come Martin Sherman, hanno la capacità di vedere in modo sufficientemente chiaro la forma della verità in relazione al conflitto arabo-israeliano e l’audacia di dire cose che non molti amano sentire, poiché la verità può essere persino insostenibile a volte, ma l’inferno, presente e futuro è anche peggio.
Consigliere ministeriale di Yitzakh Shamir, lettore in Scienze Politiche, Relazioni Internazionali e Studi Strategici all’Università di Tel Aviv, Martin Sherman è stato il primo direttore accademico della Conferenza di Herzliya, la prestigiosa piattaforma per l’elaborazione della politica nazionale di Israele. E’ il fondatore e il direttore esecutivo dell’Istituto per gli Studi Strategici Israeliano il cui scopo dichiarato è quello di “Fronteggiare, contenere e contrastare la ‘resa intellettuale’ ai dettami della correttezza politica post-sionista spesso riflessa nella condotta ufficiale dei policy-makers israeliani e nei contenuti della politica israeliana ufficiale”.
L’Informale lo ha incontrato in Israele.
Alcune settimane fa Daniel Pipes era qui in Israele per presentare alla Knesset il suo Israeli Victory Caucus. Lei ha accolto positivamente questa nuova iniziativa, tuttavia, tra lei e Pipes ci sono alcune differenze. Dal mio punto di vista, la maggiore è che lei, contrariamente a lui, non vede l’eventuale venire in essere di uno stato palestinese come una condizione per terminare l’animosità araba-musulmana nei confronti di Israele. Ci potrebbe spiegare la ragione?
Come dice lei accolgo certamente in modo caloroso l’iniziativa di Daniel Pipes per una vittoria di Israele. Ritengo che sia nel giusto sul fatto che il precedente paradigma basato su continue concessioni israeliane sia stato disastroso e invece di soddisfare l’appetito palestinese lo ha solo incrementato. In linea di principio, su un piano concettuale, appoggio sentitamente l’iniziativa di Daniel e mi auguro rappresenti l’inizio di un cambio di paradigma nell’approccio al conflitto israelo-palestinese. Detto ciò, per quanto riguarda l’idea di uno stato palestinese ritengo che sia molto importante comprendere che qui il contesto è molto diverso da quello che prevaleva in Occidente dopo la Seconda Guerra Mondiale, di seguito alla sconfitta della Germania e del Giappone. La Germania non era circondata da un gruppo di nazioni teutoniche e il Giappone non era circondato da un gruppo di nazioni nipponiche. Se vuole un altro esempio, l’Irlanda non era circondata da un gruppo di nazione gaeliche che aizzavano e boicottavano qualsiasi tipo di accordo che i vincitori avevano imposto al partito soccombente. Questo è, secondo me, il calcolo sbagliato che gli Stati Uniti hanno fatto in Afghanistan e in Iraq. Lo stato palestinese, come l’Afghanistan e l’Iraq sarebbe circondato da un gruppo di nazioni islamiche le quali potrebbero, in qualsiasi momento, minare l’accordo raggiunto con i vincitori. Se, dopo una vittoria israeliana, i palestinesi, i quali si sentono parte del mondo arabo-islamico, dovessero costituire qualsivoglia entità statale, sarebbero costantemente esposti a questo incitamento, il cui scopo sarebbe quello di riaccendere la loro animosità nei confronti dello stato ebraico. Ritengo che qualsiasi prospettiva per un futuro stato palestinese sia incompatibile con l’idea di una vittoria di Israele. Israele ha la necessità di sradicare qualsiasi idea di una futura entità palestinese a ovest del fiume Giordano perché sarebbe sempre l’obbiettivo per future agitazioni, incitamento e violenza nei confronti dello stato ebraico. Sarebbe impossibile impedirlo.
Se il rifiuto arabo si trova al cuore del conflitto arabo-israeliano la prospettiva di giungere a una pace non si regge su fondamenta molto traballanti?
La parola “pace” è una parola ad un tempo molto dittatoriale e molto ingannevole. Prima di tutto è “dittatoriale” perché, così come non ci si può opporre a un dittatore, non ci si può opporre alla pace. Tutti devono essere a favore della pace, così, in diversi sensi è una parola molto dittatoriale, la si deve sostenere, bisogna essere d’accordo. E’ inoltre “ingannevole” perché le stesse quattro lettere possono essere impiegate per descrivere due configurazioni politiche completamente opposte. Da una parte, pace può significare mutua armonia tra le parti, mentre dall’altra parte, può significare l’assenza della violenza in forza della deterrenza. Diversi tipi di condizioni determinano differenti tipi di pace. Nel contesto occidentale-europeo, dove ci sono le democrazie, confini aperti, scambio di idee e libera circolazione di persone, l’armonia basata sul consenso è un tipo accettabile di pace. Ma in un contesto dittatoriale, questo non è il caso. Lì bisogna mantenere la non belligeranza e la non violenza in virtù della deterrenza. E’ essenziale diagnosticare correttamente in quali condizioni ci si trova. Se ci si trova in un contesto dove solo la pace basata sulla deterrenza è possibile e si adotta una politica di pace basata sulla reciproca armonia tra le parti, non si avvicinerà la pace, al contrario, si creeranno le condizioni per la guerra. La ragione è che minando la propria posizione di deterrenza attraverso le concessioni si indurrà l’altra parte all’aggressione.
Dunque ci troviamo di fronte a due configurazioni opposte, a due paradigmi confliggenti.
Sì. Da una parte c’è una situazione dove un attore fa le concessioni e l’altro attore capisce che le concessioni fatte sono state fatte come segno di buona volontà, dunque si sente nell’obbligo di fare concessioni analoghe. Quindi, attraverso un processo di concessioni e contro concessioni, le cose convergono in una specie di risoluzione consensuale. Dall’altra parte c’è una situazione altrettanto praticabile in cui vengono fatte concessioni e l’altra parte le vede non come un segno di buona volontà ma come un segno di debolezza. Quindi, invece di indurre un processo di concessioni reciproche, si induce un processo di ulteriori concessioni e di concessioni più impegnative, fino a quando, invece di convergere in una risoluzione consensuale si diverge in una risposta coercitiva o violenta. Anche il soggetto più flessibile, a un certo punto raggiungerà il limite delle concessioni che può fare, e quando raggiungerà quel limite si troverà in una posizione più debole rispetto a quella dell’inizio. A questo proposito, Churchill una frase che non ricordo a memoria ma il cui significato fondamentale è, “Fintanto che non si è pronti a combattere ora, potreste trovarvi costretti a combattere in seguito quando la vostra vittoria non sarà certa e la sconfitta sarà molto più probabile“. Ritengo che le concessioni siano controproducenti. L’unica pace possibile relativamente al conflitto arabo-israeliano è una pace basata sulla deterrenza, non una pace di mutua armonia. E’ quello che ho sempre pensato. Questa era forse una posizione meno difendibile all’inizio degli anni ’90 quando Israele firmò i trattati di Oslo, ma quando guardiamo al mondo arabo oggi, è praticamente impossibile non accettare questa posizione. Il mondo arabo è diventato un mare di violenza e come è possibile sperare di giungere in qualsiasi modo a una pace di armonia con quello che sta accadendo al presente nel mondo arabo?
Negli ultimi cinquanta anni gli arabi hanno messo in piedi una narrativa molto potente ed emozionale la quale rappresenta i palestinesi come vittime e gli israeliani come oppressori. Israele non è stato molto carente nel contrastare questa narrativa?
Indubbiamente. Credo che Israele sia stato molto scadente nel presentare al mondo la propria contro-narrativa. Sono anni che sostengo che se Israele spendesse l’1% del suo budget statale nella pubblica diplomazia, in altre parole un miliardo di dollari, potrebbe avere un grande impatto sull’opinione pubblica mondiale. Le risorse allocate oggi per la diplomazia pubblica sono simili a una barzelletta scadente. E’ letteralmente meno di quello che un’azienda medio grande spende per promuovere il fast food o gli snacks. Quindi se non si investe per trasmettere il proprio messaggio, non sarà certo una sorpresa se non arriva a destinazione. Credo che questo aspetto rappresenti uno dei maggiori fallimenti di Israele e una delle sue maggiori sfide strategiche. Ritengo che a causa di ciò perderanno la loro vita più persone di quante ne sono morte nella guerra di Yom Kippur. E’ una situazione molto pericolosa, ha reso Israele molto vulnerabile. Non ho mai ascoltato una risposta convincente sul perché Israele non presenta la propria posizione in un modo più robusto e determinate. Perché il Ministero degli Esteri non finanzia delle ONG sioniste. I governi stranieri finanziano con milioni di dollari le ONG israeliane al fine di minare il nome di Israele e il governo non fa nulla per aiutare le ONG pro-israeliane a difendere il nome di Israele. E’ totalmente inaccettabile, totalmente incomprensibile.
Bassem Eid, oggi probabilmente il più autorevole attivista palestinese per I diritti umani, recentemente mi ha detto, “Il compito principale dell’Autorità Palestinese è come continuare a tenere in ostaggio i palestinesi al fine del conflitto israelo-palestinese. Questo è il loro scopo principale. Siamo ostaggi della nostra leadership, non di Israele o dell’occupazione. E’ esattamente il contrario“. Qual è la sua opinione?
Penso che abbia completamente ragione e questo è il motivo per il quale sostengo che la soluzione sia quella di finanziare l’immigrazione palestinese e araba verso paesi terzi in modo da rimuovere i palestinesi dal controllo delle cricche corrotte che hanno controllato le loro vite per decenni, portandoli da un disastro all’altro. Quindi penso che Bassem Eid abbia completamente ragione. Questo è il motivo per il quale suggerisco di rimuovere i palestinesi dal controllo di questa gente permettendo loro di vivere delle vite migliori e più sicure in paesi terzi di loro scelta dove dovrebbero arrivare come immigrati ben finanziati e non come rifugiati indigenti.
Continuiamo a sentire che i 450.000 residenti ebrei della Giudea e della Samaria sono illegali, nonostante il fatto che il Mandato Britannico per la Palestina del 1922 e successivamente la Lega delle Nazioni avessero esplicitamente garantito agli ebrei il diritto di risiedere in qualsiasi porzione della Palestina a ovest del fiume Giordano. La verità non è che per la leadership palestinese e per la maggioranza del mondo arabo gli ebrei sono illegali e illegittimi ovunque, in qualsiasi porzione del Medioriente?
Penso che gli arabi rigettino qualsiasi nozione di autodeterminazione israeliana, di sovranità politica, di indipendenza politica in qualsivoglia confine. Lo si può vedere dalla riluttanza o dal rifiuto di Abu Mazen di accettare Israele come stato-nazione degli ebrei. Ha detto che è preparato ad accettare l’esistenza di Israele ma non la nazione-stato del popolo ebraico, che è, ovviamente, una posizione assurda. Per quale motivo Israele è pronto a concedere ad Abu Mazen uno stato sovrano se questo gli dà il titolo di respingere la natura di Israele? Quindi, sì ha ragione, ritengo che il profondo rifiuto arabo di qualsiasi idea di sovranità ebraica, di indipendenza ebraica, si basi sul fatto che lo trovano del tutto inaccettabile nei termini della loro visione del mondo ed è futile cercare di cambiare le cose. Ritengo che non possiamo fare nulla per portarli ad accettarci. L’unica cosa che possiamo fare è di impedirgli di minare la nostra sovranità. Si tratta fondamentalmente di una questione di forza. Non so cosa accadrà nei prossimi dieci, vent’anni o trent’anni, se ci sarà un cambiamento nella psiche araba, ma quello che so è che non si può basare la politica israeliana sulla supposizione che, in qualche modo nei decenni che verranno, gli arabi modificheranno il loro stato mentale e la loro attitudine nei confronti di Israele. Il presupposto sul quale dobbiamo basarci deve essere il costante rifiuto arabo. Israele non può realisticamente basarsi sulla supposizione di essere accettato dagli arabi. Il massimo che gli israeliani possono aspettarsi è di essere tollerati a denti stretti, il minimo che devono ottenere è di essere molto temuti, perché meno Israele è temuto più probabile è che venga attaccato.
Come è possibile che la sinistra sia qui in Israele che in occidente continui a promuovere l’idea che sia solo attraverso ulteriori concessioni agli arabi che la pace possa essere ottenuta, nonostante ciò che fallimento degli Accordi di Oslo e il disimpegno da Gaza ha portato a Israele? E’ solo cattiva fede o si tratta di un completo scollegamento dalla realtà?
Si tratta di una combinazione di entrambi. Sotto molti aspetti è cattiva fede. Così tante persone a sinistra, specialmente in posizioni accademiche e politiche ad alto livello, hanno basato il loro futuro, il loro prestigio personale, il loro sostentamento nel promuovere questa idea. Per loro dovere ammettere che sono in errore ammonterebbe a una catastrofe. Il loro è uno sforzo da ultima trincea per cercare di mantenere la posizione acquisita. Lo può vedere da quello che accade in certi circoli, per esempio, come nel caso dell’Istituto Nazionale per gli Studi sulla Sicurezza (INSS). Continuano a promuovere il ritiro, ma non più allo scopo della pace! Quello che dichiarano è che vogliono ritirarsi unilateralmente e mantenere la possibilità dei due stati in vita per un periodo indefinito. Promuovono l’idea di un ritiro unilaterale dalla Giudea e dalla Samaria, lasciando lì l’esercito ma ritirando i civili, facendo in modo, fondamentalmente, di trasformare l’intera Giudea e Samaria in un gigantesco Libano del Sud. Quello che promuovono è esattamente la stessa situazione che prevalse nel Sud del Libano. C’era l’esercito schierato ma nessuna popolazione civile. Stanno facendo di tutto, sono disperati, non possono ammettere di essere nel torto perché se lo facessero la loro intera reputazione crollerebbe. Ritengo che tutto ciò sia alimentato dalla loro cattiva fede e dalla loro disonestà intellettuale.
Quanto danno ha causato all’esito del conflitto la persistente promozione della soluzione dei due stati come l’unica praticabile?
Un danno massiccio. Il paradigma dei due stati ha gravemente danneggiato l’impresa sionista e messo in pericolo l’ideale sionista. Fino alla fine degli anni Ottanta e al principio degli anni Novanta, si poteva andare in prigione a causa della sua promozione. Era considerato tradimento. La sinistra ha completamente modificato il discorso, in prima istanza a causa della totale incompetenza e impotenza da parte della destra israeliana nel presentare una alternativa. Una delle ragioni è che non hanno mai avanzato un paradigma alternativo se non recentemente. Un paio di alternative sono state proposte, sfortunatamente sono peggio della soluzione dei due stati perché, perlomeno con questo modello, se fallisce, Israele ha sempre una chance per un rimedio sotto forma di una risposta coercitiva, l’invasione, la conquista, ma se si seguono le proposte della destra come quelle di Caroline Glick o anche di Mordechai Kedar, non si può rispondere con le stesse misure militari. Se si annettono i territori e si accorda una residenza permanente agli arabi che vi si trovano, si avrebbe una situazione di stile libanese, con scontri etnici e bagni di sangue. Poi cosa si farebbe? Si tratterebbe di una situazione praticamente impossibile da risolvere con le limitazioni conferite da uno stato democratico. Questa è la ragione per la quale insisto così tanto nel dire che bisogna rimuovere la presenza degli arabi all’interno del territorio sovrano di Israele, principalmente attraverso mezzi non coercitivi, offrendo loro una vita migliore e più sicura altrove, al di fuori dal ciclo della violenza.
Secondo Mordechai Kedar, l’unica soluzione praticabile per una risoluzione positiva del conflitto è di trasformare le enclave arabe in emirati. Lui vede questa soluzione ancorata alla sociologia e alla cultura araba, essendo gli arabi clan e tribù e il concetto di stato nazionale alieno alla loro forma mentis. E’ d’accordo con lui?
Sono completamente d’accordo con la sua analisi sociologica e completamente in disaccordo relativamente alle implicazioni politiche che ne derivano. Ritengo che sia completamente impraticabile pensare di delimitare oggi le enclavi arabe, delinearle geograficamente, perché anche se si trovasse un arabo flessibile disposto a essere un “guardiano sionista” che controllasse queste persone per la prima generazione, con la seconda la cosa non funzionerebbe più. Cosa si fa quando la popolazione si espande e l’area geografica in cui sono stati delimitati non è più in grado di sostenerli? Come si fa a garantire i confini? Come si fanno a gestire le tracimazioni oltre confine? Per esempio i liquami delle fognature? Cosa si fa con l’educazione? Ci sono tutta una serie di effetti che non possono essere determinati. L’unica maniera in cui Israele può mantenere il suo status è applicare la propria sovranità dal fiume Giordano al mare.
Quale soluzione ritiene che sia la più razionale e praticabile?
L’unico modo di gestire la demografia è quello di ridurre la presenza araba nei territori, preferibilmente, come ho detto, in modo non coercitivo, attraverso un sostegno economico, e se non funziona, aumentando gli incentivi per andare via e i disincentivi per rimanere. Non ci sono altri mezzi, non si può quadrare un cerchio. Oggi ci sono di base quattro alternative sul tavolo. La prima è la soluzione dei due stati, il che significa fondamentalmente impiantare l’ennesima entità islamica a maggioranza omofoba e misogina, questa volta ai confini di Tel Aviv, entità che in un breve periodo si trasformerebbe in una mega Gaza. Il secondo modello è quello proposto da Caroline Glick, che, nella mia opinione, è una chiara ricetta per la libanizzazione della società israeliana, in altre parole, per il conflitto etnico. La terza soluzione è quella degli emirati proposta da Mordechai Kedar o quella di Naftali Bennet, enclavi palestinesi autogovernate che porterebbero alla balcanizzazione della società israeliana. La quarta soluzione, che è la mia soluzione, è secondo me, l’unica in grado di dare una risposta adeguata agli imperativi di Israele: l’imperativo geografico e quello demografico. Se si annettono i territori si avrà come minimo una minoranza musulmana intorno al 35%-45%. Non si sarà in grado di mantenere una società coesa e coerente con simboli ebraici, un inno nazionale ebraico, un calendario ebraico, perché come punto di partenza si avrà una minoranza ostile del 35%-45% la quale non solo li rifiuta ma li rigetta con veemenza. Inoltre ci sarebbero i dislivelli economici tra la società israeliana dove il guadagno pro capite è di circa 40,000 dollari l’anno, e quella palestinese dove è di circa 3000 dollari pro capite. Si dovrebbero spostare enormi risorse economiche in modo da ridurre i dislivelli socio-economiche. Ciò minerebbe inevitabilmente quello che Israele sta investendo in educazione, ricerca, infrastrutture, il che indurrebbe l’emigrazione ebraica da Israele e comprometterebbe l’equilibrio demografico. Quindi o si ha una mega Gaza affacciata su Tel Aviv, la libanizzazione o la balcanizzazione, o quello che io definisco il “paradigma umanitario”. Non vedo molte altre scelte.
Quello che propone è in qualche misura simile, anche se molto meno drastico, a quello che proponeva Meir Kahane, la rimozione degli arabi con una compensazione per la loro proprietà.
Partiamo da basi molto diverse. Kahane aveva un punto di vista religioso, io sono una persona completamente laica. Ma non è questo il punto. Si deve guardare al merito della mia proposta, non a chi la sostiene o l’ha sostenuta. Si pensa che una mega Gaza sia un esito migliore? Si pensa che la libanizzazione sia un esito migliore? Una proposta si giudica dai suoi meriti. E’ tutto. Io penso che il mio modello è l’unica via attraverso la quale, per esempio, i gazawi a Gaza possono liberarsi dal controllo delle persone di cui parla Bassem Eid. E’ l’unico modo per poterlo fare, offrendogli altrove una vita più degna. Per quale motivo una prospettiva del genere dovrebbe essere considerata inumana o fascista? Perché un progressista dovrebbe appoggiare il venire in essere di una tirannia musulmana che approverebbe la discriminazione tra i sessi, la persecuzione degli omosessuali, la caccia ai dissidenti politici, l’intolleranza verso chi non appartiene alla fede musulmana? Quale progressista sano di mente potrebbe sostenere un modello simile. E’ oltre la comprensione.
In una intervista data alla stampa francese nel 2014, nel mezzo dell’Operazione Margine Protettivo, nel periodo in cui Israele era sottoposto alla pressione internazionale per una tregua, Benjamin Netanyahu disse alla giornalista francese che lo stava intervistando, che Israele stava combattendo’ la “stessa battaglia della Francia”. “Se non saremo uniti” disse, “questa peste colpirà anche voi. E’ solo una questione di tempo”. Fu, sfortunatamente, un buon profeta. Martin Sherman, la battaglia di Israele è la stessa che l’occidente sta combattendo contro il radicalismo islamico?
Ritengo che la battaglia contro Israele includa la battaglia contro l’occidente. Ci sono elementi addizionali nella battaglia di Israele. Tenga in mente che non tutti i terroristi che hanno attaccato Israele erano musulmani. Alcuni dei terroristi più sanguinari erano cristiani: gente come Naif Hawatme, George Habash e Wadie Haded era cristiana. Il membro della Knesset, Basel Ghattas, il quale è stato recentemente incarcerato per avere contrabbandato dei cellulari con i terroristi, è anche lui un cristiano e non un islamista radicale. Una larga parte della porzione della battaglia che Israele combatte oggi comprende gli stessi pericoli che stanno minacciando l’Europa. L’elemento addizionale qui, e che oggi probabilmente non è così forte come una volta, è quello del nazionalismo arabo. Nella battaglia che Israele sta combattendo ci sono ampie sovrapposizioni con i pericoli che sta combattendo l’Europa i quali includono elementi religiosi, ma c’è un elemento nazionalistico che Israele deve affrontare che non è incluso in ciò che sta affrontando l’Europa. Quello che credo, come ha menzionato lei precedentemente, è che Israele è stato molto remissivo, molto poco agguerrito nel presentare le proprie ragioni a causa del fatto che la sua diplomazia è estremamente male finanziata. Non è sufficientemente risoluta, non è sufficientemente assertiva. Una cosa è Benjamin Netanyahu che fa all’ONU un grande discorso, ma questa non è strategia diplomatica. Come ho detto, ci vuole uno sforzo strategico finanziato da almeno l’1% del budget nazionale. Ritengo che la diplomazia pubblica sia una delle priorità strategiche più importanti che abbia Israele. Tra le altre cose, il messaggio da recapitare all’occidente è che stiamo fronteggiando una serie di minacce molto simili, non identiche ma sicuramente molto simili.
Quando Donald Trump è stato eletto, qui in Israele c’è stata una grande speranza che le cose avrebbero preso un corso molto diverso da quello intrapreso dall’Amministrazione Obama. Tuttavia, sembra che ci troviamo ancora una volta sul binario della soluzione dei due stati, anche se in una configurazione che non conosciamo ancora nei suoi dettagli. Qual è la sua opinione al riguardo?
Penso che sia in gran parte colpa di Israele. L’Amministrazione Trump era molto simile a una pagina bianca quando si è insediata e Israele avrebbe potuto scrivere qualsiasi cosa avesse voluto su di essa. Non sarebbe stato possibile immaginare un insieme più ben disposto: Jared Kushner, David Friedman, Jason Greenblatt. Queste sono persone che sono fortemente a favore di Israele ma a cui non sono state fornite adeguate munizioni intellettuali. Sfortunatamente la destra ha permesso alla sinistra di dominare il discorso e non ha prodotto una contro-narrativa. Abbiamo perso una grande opportunità. Credo che avremmo potuto fare molto di più per far sì che Trump spostasse l’ambasciata americana a Gerusalemme. L’unica promessa elettorale che Trump ha platealmente dimostrato di non volere cercare di mantenere è stata quella di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, tra le altre cose perché hanno lasciato la questione ai funzionari dell’era Obama al Dipartimento di Stato. Combatto con avversari ideologici che possono basarsi su budget di molti milioni di dollari e io sto esaurendo le energie. E’ molto difficile per me continuare ad andare avanti nel promuovere il mio messaggio, che è uno dei motivi per cui la ringrazio per questa intervista. E’ assai frustrante vedere i propri avversari ideologici ottenere grandi fondi mentre le persone che cercano di lottare per Israele si arrabattano per degli spiccioli.
In conclusione vorrei da lei un suo commento sulla crisi del Monte del Tempio cui si è aggiunto adesso l’episodio dell’uccisione di due cittadini giordani da parte di un addetto alla sicurezza all’interno dell’ambasciata israeliana ad Amman. Cosa prevede? (Ndr. Quando Martin Sherman ha risposto alla nostra domanda, l’episodio di Amman non aveva ancora avuto un esito conclusivo e i metal detectors erano ancora installati. Gli eventi gli hanno dato ragione).
Prevedo la capitolazione di Israele, che penso sia completamente sbagliata. Penso che sia assolutamente inconcepibile che gli arabi possano usare i metal detectors utilizzati per potersi proteggere, per incitare a una rivolta contro Israele. E’ del tutto inconcepibile, e il fatto che Israele non stia ricevendo un massiccio sostegno interazionale rappresenta un atto di accusa grave sia nei confronti della comunità internazionale che in quelli della diplomazia israeliana. La stessa cosa è accaduta in Giordania, dove l’addetto alla sicurezza israeliano è stato attaccato all’ambasciata e tutto quello che Israele ha pensato di fare è stato come rabbonire i giordani invece di dirgli fin dal principio “Se non lo rilasciate, smetteremo di fornirvi il gas, l’acqua ecc.” Stiamo facendo concessioni perché un membro del nostro personale è stato attaccato ed è riuscito a difendersi? E’ completamente folle. Non c’è alcuna risposta risoluta. In questo modo non facciamo altro che invitare ulteriore pressione.