Editoriali

Non tacere ciò che fa problema

Nel giorno della morte di Jorge Mario Bergoglio, duecentosessantaseiesimo pontefice di Santa Romana Chiesa con il nome di Francesco, non entreremo nel merito del suo papato e dunque del suo magistero, non essendo questo argomento di nostra pertinenza e che lasciamo dunque volentieri sviscerare ad altri in altre sedi, ma ci limiteremo all’esercizio della pharresia riguardo al suo atteggiamento verso Israele.

A seguito della guerra scoppiata tra Israele e Hamas come conseguenza dell’eccidio da esso perpetrato in Israele il 7 ottobre del 2023, Papa Francesco, in questo ultimo anno e mezzo si è distinto per diverse dichiarazioni assai problematiche a causa della loro spiccata unilateralità critica nei confronti dello Stato ebraico e della sua risposta militare.

Mai in nessuna frase o dichiarazione ufficiale, il Papa ha fatto riferimento al radicalismo islamico e all’estremismo jihadista, preferendo nel migliore dei casi, profferire una condanna generica e scontata della guerra e della violenza, e in quelli peggiori concentrandosi in una accusa rivolta a Israele.

Tra il settembre e il dicembre del 2024, in particolare il Papa ha pronunciato una serie di frasi in cui la demagogia e l’evidente avversione per l’azione di Israele sono lampanti, da “La difesa deve sempre essere proporzionata all’attacco. Quando c’è qualcosa di sproporzionato, si fa vedere una tendenza dominatrice che va oltre la moralità…La guerra è immorale ma le regole di guerra indicano una moralità…quando questo non c’è si vede, diciamo in Argentina, il cattivo sangue” ai “bambini mitragliati” a Gaza. Dichiarazioni che si aggiungono a quanto affermato nel libro intervista La speranza non delude mai, “Secondo alcuni esperti, quello che sta accadendo a Gaza ha le caratteristiche di un genocidio. Dobbiamo investigare accuratamente per verificare se ciò collima con la definizione tecnica formulata da giuristi e organi internazionali”.

Nel 2014, durante la sua visita in Israele dopo avere celebrato Messa a Betlemme accompagnato da Abu Mazen, con sullo sfondo dell’altare un murale con Gesù raffigurato con al collo una kefiah, il Papa si fermò a pregare davanti a una porzione di cemento della barriera difensiva eretta da Israele sulla quale è dipinto un graffiti che stabilisce una analogia tra Betlemme e il ghetto di Varsavia.

Poco dopo l’eccidio del 7 ottobre, centinaia di leader e studiosi ebrei gli scrissero una lettera aperta, chiedendo alla Chiesa di condannare inequivocabilmente gli attacchi di Hamas e di distinguere il terrorismo dalla guerra di Israele contro il gruppo jihadista. Ci vollero tre mesi prima che il Papa rispondesse con una lettera in cui condannava l’antisemitismo, riaffermava il legame tra la Chiesa e gli ebrei e sottolineava che il suo cuore era “straziato alla vista di ciò che sta accadendo in Terra Santa, per la forza di tanta divisione e tanto odio”, ma non faceva alcun riferimento a Hamas.

L’evidenza del pregiudizio anti-israeliano e della inclinazione propalestinese è solare. A ciò si aggiunge l’aggravio dell’utlizzo di termini che abbiamo voluto evidenziare e che rivelano purtroppo l’inossidabilità di tropi antigiudaci di cui la Chiesa nonostante i suoi passi avanti nel diaologo interreligioso con l’ebraismo, non si è mai del tutto liberata, come hanno testimoniato da quando è scoppiata la guerra tra  Israele e Hamas, diverse dichiarazioni di membri autorevoli e meno autorevoli del clero, tanto da avere fatto dire al Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni, che essi rappresentano esempi di “teologia regredita”.

La morte di un Papa pur nel rispetto che si deve al ruolo che ha ricoperto da vivo, non dovrebbe celare nello scontato panegirico, ciò che fa problema, soprattutto se a farlo, come sta accadendo in queste ore, è il mondo ebraico più istituzionale.

 

 

 

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