L’ultimo numero di Limes, uscito a marzo, programmaticamente intitolato «Israele contro Israele», data la quantità di cliché e di abusate banalità in esso contenute, si rivela una perfetta guida per continuare a non capire nulla della realtà israeliana.
La tesi generale del volume, espressa coralmente da tutte le firme, è la seguente: in Israele la democrazia è in pericolo o, meglio ancora, Israele starebbe completando la sua definitiva trasformazione in Stato razzista e teocratico. «Perché è questo che Israele fa da più di mezzo secolo. Tratta i Territori palestinesi occupati quasi fossero di sua proprietà. Aree da colonizzare, da annettere, come di fatto sta avvenendo. Spazi su cui instaurare un regime di apartheid», così afferma, intervistata da Umberto De Giovannangeli, Hanan Ashrawi, ministro dell’ANP.
I responsabili della presunta involuzione etno-nazionalista di Israele sarebbero i cosidetti «coloni», i sionisti religiosi e gli ultraortodossi, intorno ai quali, Limes, tesse una vera e propria demonologia. Włodek Goldkorn ci informa che Netanyahu, alleandosi con «il partito che rappresenta l’ala più oltranzista dei coloni, nonché con i rappresentanti dell’ebraismo ultraortodosso», avrebbe spostato il baricentro politico israeliano verso la destra razzista e populista. Della Pergola parla di «grossa sezione venata di razzismo e ultranazionalismo». Mentre, secondo Arturo Marzano, il Likud «appoggia totalmente la colonizzazione crescente di Giudea e Samaria». Ancora De Giovannangeli, invece, avvisa il lettore che le violenze dei «coloni» a danno dei palestinesi «possono contare sulla copertura dei partiti di estrema destra al governo in Israele».
Gli autori di Limes non capiscono, o preferiscono non capire, che l’avanzata elettorale della cosiddetta «estrema destra», definizione quanto mai vaga e meramente polemica, è il frutto dei numerosi fallimenti della sinistra laica israeliana che, a differenza della destra, non è stata capace di comprendere la reale natura dei nemici, interni ed esterni, di Israele. Gli israeliani, diversamente dai redattori della rivista, non hanno dimenticato ciò che è avvenuto a partire dal fallimento del vertice di Camp David nel 2000. Arafat, dopo aver rifiutato il piano offertogli da Bill Clinton e Dennis Ross, che pure concedeva ai palestinesi quasi tutto ciò che essi pretendevano da anni, lanciò la Seconda Intifada, che costituì il più grande massacro di ebrei dalla fine della Seconda guerra mondiale.
L’elettorato israeliano ha ancora ben presente l’odio apocalittico e fanatico di movimenti come Hamas e la Jihad Islamica, il consenso popolare palestinese agli attentatori suicidi, le madri che incitavano i loro figli a trasformarsi in bombe umane, le macabre esibizioni di cadaveri, il culto della morte a cui patecipò quasi tutta la società palestinese. Il terrorismo non è, come si evince dalla lettura di Limes, una reazione all’«occupazione» israeliana o alla povertà, bensì il portato di un’ideologia omicida. Affermare che gli arabi-palestinesi comprendono solo il linguaggio della violenza non è «razzismo» e men che meno «orientalismo», ma la semplice constatazione di un fatto accertato. Tutti i piani pace, infatti, anche i più ragionevoli, sono stati fatti fallire dalla controparte palestinese, che alla convivenza con Israele ha preferito il terrorismo suicida e la lotta a oltranza.
Itamar Ben Gvir e i membri del suo partito, Otzma Yehudit, qualificati come «fanatici», sono a ben vedere dei realisti. La loro proposta di espellere i cittadini arabi dello Stato d’Israele che non sono fedeli a quest’ultimo, può sembrare dittatoriale, ma solo se non si considera che gli arabi israeliani sono una bomba a orologeria pronta a esplodere alla prima occasione utile. Lo si è visto due anni fa, nel maggio 2021, quando nella città di Lod, nel corso dell’ultimo scontro con Hamas, bande di facinorosi arabi israeliani hanno dato alle fiamme sinagoghe, negozi, automobili, costringendo buona parte dei residenti a rimanere chiusi in casa, per non parlare dei regolari tumulti scatenati sul Monte del Tempio, noto anche come Spianata delle Moschee. Lo Shin Bet monitora quotidianamente il traffico d’armi clandestino che avviene in seno alla comunità arabo-israeliana, una cui consistente quota considera Israele un tumore da estirpare con la violenza.
Quella che vorrebbe essere la «rivista italiana di geopolitica» abusa di termini e definizioni polemiche e fumose e mistificanti come «colonizzazione», «occupazione», «apartheid», «sudafricanizzazione», rendendosi indistinguibile da un ciclostile di qualche organizzazione universitaria di estrema sinistra. Gli autori, però, si guardano bene dallo specificare quali territori di uno Stato sovrano Israele «occuperebbe» e quali pratiche di esclusione metterebbe in atto. Si limitano a dare voce ai deliri di Hanan Ashrawi, definita dalla Zionist Organization of America come «una dei principali apologeti palestinesi del terrorismo». Nel settembre 2001, quando le fu chiesto di commentare gli omicidi di israeliani da parte di arabi palestinesi, Ashrawi affermò, su Voice of Palestine, che «l’unica lingua che Sharon capisce è quella della violenza».
In questo recente volume si trova anche un’intervista, curata nientemeno che dal direttore responsabile, Lucio Caracciolo, a Peter Beinart, docente alla scuola di giornalismo della City University of New York. Beinart è un attivista anti-israeliano e un sostenitore del Movimento Boycott, Divestment and Sanctions. Di recente, in un articolo sul The Guardian intitolato «The US supports illegal annexations by Israel and Morocco. Why the hypocrisy?», Beinart ha tracciato un parallelo tra l’invasione russa dell’Ucraina e le azioni difensive di Israele durante la Guerra dei Sei Giorni nel 1967. Nel pezzo, il docente americano, suggerisce che gli Stati Uniti dovrebbero smettere di fornire aiuti militari allo Stato ebraico perché, così facendo, «renderebbero più vulnerabili l’Ucraina, Taiwan e ogni altra nazione più debole confinante con un rapace vicino». Insomma, secondo Beinart, Israele sarebbe un «rapacious neighbor», che attaccherebbe arbitrariamente i vicini e, fornendogli aiuti militari, gli Stati Uniti non solo incoraggerebbero le sue aggressioni, ma anche quella della Russia contro l’Ucraina.
Il numero di Limes in questione dedica ampio spazio alla riforma giudiziaria promossa dal governo guidato da Netanyahu. Il dibattito sulla proposta di riforma è inquadrato nel più ampio conflitto tra «universalismo» ebraico e sionismo, tra «democraticità» ed ebraicità. In questo quadro, la Corte suprema israeliana sarebbe un organo schierato a difesa della democrazia e della laicità. Ignorando consapevolmente autorevoli opinioni sul potere ipertrofico della Corte, a cominciare da quella di Moshe Landau, il prof. Della Pergola scrive «Se la Corte suprema ha un ruolo che può apparire a volte esagerato e invadente, questo dipende dalle lacune e dall’impotenza della Knesset». Netanyahu, dunque, non starebbe tentando di riequilibrare lo Stato di diritto, ma cercando di eliminare un ostacolo al suo programma nazionalista e «segregazionista».
Dalla lettura del volume emerge un pensiero ben poco recente. Scorrendo le pagine ci si rende conto che in esse si riannoda l’antica condanna dell’ebreo «secondo la carne», del suo particolarismo, del suo esclusivismo, del suo egoismo tribale. Vi è un eco di San Paolo, con l’accusa mossa agli ebrei di chiudersi in sé stessi, di preferire i loro legami di sangue ai valori universali. I palestinesi, come ha scritto Alain Finkielkraut, non sono più i nemici degli israeliani, ma il loro Altro. Israele sarebbe in lotta con l’alterità, dunque con l’umanità, il che ne farebbe il criminale per eccellenza. In questo tempo di penitenziale smantellamento dello Stato-nazione, agli ebrei non si perdona il loro voler far coincidere Eretz Yisrael (la terra d’Israele) con Medinat Yisrael (lo stato d’Israele). Ecco, allora, che piovono le accuse di «razzismo» e «ultranazionalismo».
Limes vorrebbe aiutare a capire, ha persino l’ambizione di voler spiegare, ma in realtà confonde le acque, riproponendo tesi sconfessate e palesi falsità. Non una parola è stata dedicata all’atteggiamento della sinistra israeliana, che ha esacerbato il clima politico paventando l’avvento della dittatura o della teocrazia. Come ha scritto John Podhoretz sulla rivista Commentary: «è del tutto normale che un governo vincente entri in carica desideroso di attuare le politiche su cui si è basato, anche se quelle politiche sono controverse. Dobbiamo tenere presente questo fatto mentre consideriamo il comportamento del corpo politico di sinistra di Israele e dell’élite intellettuale da quando il governo ha preso il potere. Sono le persone nelle strade che si comportano in modi senza precedenti in una democrazia funzionante, non il governo eletto democraticamente a cui si oppongono».
Dopo aver ospitato i deliri di Dario Fabbri sulla «stirpe» ebraica, la «rivista italiana di geopolitica» si conferma, ancora una volta, come megafono dei peggiori luoghi comuni anti-israeliani.