Nei giorni scorsi si è assistito all’ennesima messa in scena da parte di una ONG – in questo caso Amnesty International – che in un proprio corposo report di 278 pagine ha accusato Israele di uno dei peggiori crimini che si possono commettere: crimini contro l’umanità.
Nel caso in esame il crimine commesso sarebbe quello di apartheid. Dopo la pubblicazione del report di Amnesty International sono seguite svariate interviste da parte di alti membri dell’organizzazione, rilasciate per comprovare le accuse formulate nel report. E’ da sottolineare che, ad una più attenta analisi, sia il report che le varie interviste non forniscono la minima fondatezza delle accuse formulate ma solo delle prese di posizione basate su dei principi generali completamente decontestualizzati, mezze verità e vere e proprie falsità ideologiche e storiche, insomma le solite accuse rivolte agli ebrei da due millenni. Costruite oggi nella sua variante più accettabile: l’accusa allo Stato del popolo ebraico di commettere crimini contro l’umanità. Il report è talmente ricco di menzogne da risultare imbarazzante e per certi versi ridicolo per come ha “ricreato” una fiction criminalizzante. Ma questo è appunto il suo scopo principale, criminalizzare.
Prima di addentrarci nello specifico della grottesca accusa di apartheid rivolta a Israele è utile soffermarci sul reale scopo di questa mistificazione: attirare l’attenzione dell’opinione pubblica con titoli accusatori (con la compiacenza di numerose testate ad iniziare dalla BBC) per tentare di delegittimare Israele fin dalla sua nascita (questa è la tesi fondamentale propugnata da Amnesty International) agli occhi del pubblico, utilizzando lo strumento del Lawfare ideologico e accusatorio non basato su violazioni reali ma su mistificazioni create ad hoc. E’ un metodo che procede in maniera sistematica da Durban 2001. Si tratta della guerra perseguita con altri mezzi. Non essendo riuscito agli arabi di eliminare Israele tramite la forza militare, si tenta in tutti i modi di distruggerlo in effige.
Proveremo a capire come l’apartheid è disciplinato nel diritto internazionale e se è un termine che può essere applicato nella sua specificità a Israele.
Apartheid, definizione e utilizzo
La fonte principale del diritto internazionale che equipara l’apartheid ai crimini contro l’umanità si trova nello Statuto di Roma con cui si è istituito il Tribunale Penale Internazionale nel 1998. Nel suo articolo VII “Crimini contro l’umanità” al paragrafo 2 comma h si legge la definizione di apartheid, che qui si riporta per intero:
h) “per «apartheid» s’intendono gli atti inumani di carattere analogo a quelli indicati nelle disposizioni del paragrafo 1, commessi nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e di dominazione da parte di un gruppo razziale su altro o altri gruppi razziali, ed al fine di perpetuare tale regime”;
Quindi, come recita il comma h, per esserci apartheid ci deve essere un “…regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e di dominazione da parte di un gruppo razziale su altro o altri gruppi razziali, ed al fine di perpetuare tale regime”. Da questo postulato ricaviamo due essenziali e necessari principi:
- Deve esistere una legislazione che normi e disciplini la segregazione raziale, come avvenne in Sud Africa che si era dotato di numerose e capillari leggi segregazioniste.
- Deve esistere un “gruppo razziale” ben definito che “domina” su “altro o altri gruppi razziali”.
Per quanto concerne il punto 1, in Israele non esiste una sola norma che disciplini una presunta segregazione razziale, tanto è vero che lo stesso rapporto di Amnesty International non è in grado di fornire il caso di una singola legge che abbia queste caratteristiche. L’unico riferimento, per altro vago e completamente decontestualizzato è fatto in merito alla legge sullo Stato nazionale del popolo ebraico del 2018. Però addentrandosi nello specifico di questa legge fondamentale dello Stato, in nessuno dei suoi 11 articoli si trova il ben che minimo riferimento a pratiche segregazioniste o semplicemente a criteri differenziati di diritti tra i suoi cittadini in base all’appartenenza etnica o religiosa. Tanto è vero che gli arabi di Israele godono degli stessi diritti di tutti gli altri abitanti: hanno partiti politici (ora anche al governo), pieno accesso a tutti i gradi di istruzione in scuole o università in lingua araba o ebraica a loro scelta. Sono avvocati, notai, medici, infermieri in strutture aperte a tutti i cittadini senza distinzioni etniche o religiose, sono giudici (anche alla Corte Suprema), poliziotti, funzionari statali. La stessa lingua araba è equiparata all’ebraico. In pratica gli arabi godono dei medesimi diritti dei cittadini ebrei. Infine, questa legge fondamentale non dice nulla di diverso da quanto stabilito del diritto internazionale quando ha approvato il Mandato per la Palestina che è l’embrione legale dello Stato di Israele.
Per quanto concerne il punto 2, cioè pensare che il popolo ebraico sia un gruppo raziale è semplicemente surreale. Basta osservare gli ebrei di origine europea (askenaziti), quelli scappati dai paesi arabi o dai paesi mediterranei (sefarditi), quelli di origine etiope (falashà) per accorgersi dell’enorme diversità che li contraddistingue. L’unico punto in comune è la condivisione di una stessa lingua, di medesime tradizioni culturali/religiose, e del forte attaccamento alla Terra di Israele: cioè “sentirsi” appartenenti ad uno stesso popolo. In conclusione, mancano completamente tutti i requisiti stabiliti dall’articolo VII dello Statuto di Roma per poter definire Israele come Stato di apartheid.
Un’altra fonte che definisce il crimine dell’apartheid è la Convenzione contro l’apartheid del 1973. Qui si trova una definizione – all’articolo 2 –di apartheid che fa esplicito riferimento alla situazione del Sud Africa nel quale vigeva un regime di segregazione raziale molto ben disciplinato legislativamente. Però la Convenzione del 1973 non fa un riferimento puntuale a leggi e a disposizioni normative precise e inequivocabili (come nel caso del Sud Africa), ma si attiene a dei principi generali vaghi e di conseguenza manipolabili e interpretabili per convenienza politica che era la ragione stessa per la quale si è volle istituire la convenzione contro l’apartheid: cioè attaccare politicamente un qualsiasi Stato utilizzando dei principi vaghi, interpretabili e manipolabili. Fu questa la ragione per la quale la convenzione venne ratificata solamente da una trentina di paesi in tutto il mondo ad iniziare dall’Urss. L’Italia, gli USA e tutti i paesi occidentali, oltre che la stragrande maggioranza dei paesi del mondo, non fanno parte di questa convenzione perché compreserò l’utilizzo politico che si poteva fare della medesima. Il rapporto di Amnesty International si colloca in questa linea di azione: utilizzare un termine – apartheid – svuotandolo dei suoi contenuti oggettivi e legali per manipolare politicamente l’opinione pubblica al fine di attaccare un ben preciso Stato: Israele.
Questa interpretazione è corroborata dal rapporto stesso di Amnesty International: non vi è la minima traccia o riferimento a una presunta legislazione segregazionista presente in nessuna delle leggi di Israele. E questo semplicemente perché non esiste nulla di tutto ciò nell’ordinamento legislativo israeliano.
Su cosa si basa quindi il rapporto di Amnesty International? Semplicemente su una serie di fatti storici (molti dei quali falsificati), controversie legali e giudiziarie completamente decontestualizzate e manipolate ad arte. Da “impressioni soggettive” di presunte discriminazioni che non trovano riscontro nei dati o nei fatti oggettivi della realtà sociale di Israele.
Se si volessero utilizzare questi disonesti criteri di giudizio e di manipolazione dei dati e applicarli ad altri contesti si potrebbe descrivere la realtà di tutti i paesi democratici come Stati nei quali vige l’apartheid. Vediamo brevemente degli esempi.
Italia
In Italia si potrebbe stilare un rapporto come quello calunnioso e manipolato di Amnesty International, ad esempio, relativo alla situazione dei gruppi etnici sinti e rom di cittadinanza italiana da numerosissime generazioni. Se decontestualizziamo e deformiamo i dati relativi a questi due gruppi etnici e ci basassimo esclusivamente su dati relativi a scolarizzazione, situazione abitativa, impieghi lavorativi, interazioni sociali e retribuzioni oltre che ad “impressioni soggettive”, non vi è dubbio che l’Italia applichi un regime di apartheid nei loro confronti.
Gran Bretagna
Se applicassimo i su menzionati criteri alla popolazione nord irlandese di religione cattolica (divisa anche fisicamente da quella protestante a Belfast da un muro in cemento) non ci dubbi sul regime di apartheid applicato dalla Gran Bretagna.
Lo stesso principio lo si potrebbe utilizzare in Stati quali: Stati Uniti d’America con la popolazione nativa indiana e di colore, Spagna con i baschi e i gitani, Francia con i gitani, Brasile e tutti gli Stati del sud America con le popolazioni native, Cuba con la popolazione di colore fortemente discriminata e totalmente assente da rilevanti incarichi legislativi e giudiziari per essendo maggioranza della popolazione, Giappone con la popolazione di origine coreana, tutti i paesi arabi con le minoranze non musulmane, Cina con le minoranze degli Uiguri e con quell tibetana, Australia e Nuova Zelanda con le popolazioni native, i territori amministrati dall’Autorità Nazionale palestinese ove vige un completo ordinamento giuridico basato sulla discriminazione etnica. L’elenco, in pratica, comprenderebbe la totalità dei paesi del mondo.
La riflessione che dovrebbe essere fatta in merito al report fraudolento di Amnesty International, dovrebbe essere relativa a due punti:
Chi finanzia organizzazioni non governative di questo genere e perché? E’ mai stata fatta chiarezza su come vengono spesi i numerosi milioni di dollari che ricevono annualmente?
Dove sta il confine tra libertà di espressione, diritto di critica e tutela dei diritti umani e diritto di calunnia, diritto a diffamare, manipolazione della realtà per fini politici e circonvenzione dell’opinione pubblica?
A seguito del report di Amensty international sono queste le informazioni che governi, organizzazioni internazionali e mass media dovrebbero chiedere conto alla dirigenza della ONG inglese.