La sentenza promulgata, alcune settimane fa, dalla Corte Suprema di Israele in merito ad una legge del 2017 con la quale si legalizzava, retroattivamente, la costruzione circa 4.000 abitazioni in Samaria, ha suscitato molto scalpore.
Sia in Israele sia in Europa questa sentenza è stata strumentalizzata politicamente facendola passare come una bocciatura della proclamata prossima volontà del governo di estendere la sovranità israeliana al 30% della Giudea e Samaria. Questa sentenza però, non ha nulla a che vedere con questo progetto politico. Vediamone brevemente gli aspetti principali.
La suddetta sentenza è il risultato del ricorso alla Corte Suprema da parte di alcuni palestinesi sostenuti da alcune ONG israeliane, all’indomani dell’approvazione della legge mai diventata esecutiva approvata dalla Knesset nel 2017, con la quale si intendeva legalizzare la costruzione di abitazioni su terreni privati palestinesi. Questa legge si riferisce a costruzioni di abitazioni edificate bona fide, cioè quando i proprietari delle abitazioni dimostrano che in buona fede hanno edificato su terreni di cui non si aveva la certezza che fossero proprietà privata, come impone la legge. Inoltre essa prevedeva una compensazione all’eventuale legittimo proprietario del 125% del valore del terreno una volta accertata la sua proprietà.
E’ da sottolineare che in Giudea e Samaria molto spesso non si ha una piena certezza di proprietà dei terreni in quanto sono ancora accettate dalle autorità militari israeliane le documentazioni catastali in vigore dal periodo ottomano, mandatario e giordano. Tali documenti sono in molti casi contradditori, carenti e lacunosi perciò molti sono i casi di diatribe e ricorsi di vario genere presso la Corte Suprema, che ha sempre agito in piena imparzialità come dimostra anche questo caso. Sono numerose le sentenze che nel corso dei decenni hanno dato ragione ad una parte o all’altra.
Molto noto, ad esempio, fu il caso Dwaikat contro Israele del 1979, conosciuto come il caso Elon Moreh, relativamente al quale la Corte studiò nel dettaglio la definizione di necessità militare e respinse le prove fornite dall’esercito, per consentire la creazione dell’insediamento Elon Moreh ritenuto non strategico dal punto di vista militare.
Dopo il caso Elon Moreh, tutti gli insediamenti urbani legalmente autorizzati dall’amministrazione militare israeliana (una categoria che, per definizione, esclude “avamposti illegali” costruiti senza previa autorizzazione o successiva accettazione) sono stati costruiti su terreni di proprietà statale o “pubblica” o, in una piccola minoranza di casi (circa il 10% delle abitazioni), su terreni acquistati (regolarmente e a caro prezzo) dagli ebrei dai proprietari arabi dopo il 1967. Il termine “terra pubblica” comprende terreni rurali non coltivati e non registrati a nome di nessuno oltre che terreni di proprietà di proprietari di assenti, che sono entrambe delle categorie di terreni pubblici secondo la legge giordana, mandataria e ottomana che Israele ha deciso di mantenere in Giudea e Samaria pur non avendone l’obbligo. Mentre, è considerata proprietà privata, per le autorità israeliane, la terra registrata a nome di una persona diversa da un proprietario assente (indipendentemente dal fatto che la terra sia attualmente coltivata), la terra in cui esiste un atto di proprietà (anche se l’atto non è registrato) o la terra detenuta per uso prescrittivo. In quest’ultimo caso è previsto che ci sia un uso continuo del terreno per un periodo di 10 anni (usucapione). Quindi come si può facilmente comprendere tutti i diritti di proprietà minimamente dimostrabili sono garantiti anche se ci vogliono anni per dimostrarlo.
Nonostante le citate garanzie sulla proprietà fornite dalla autorità, la caratterizzazione da parte dello Stato di alcune terre come “statali” o “pubbliche” ha suscitato notevoli controversie. In una delle critiche più dettagliate e citate, B’Tselem, la ONG israeliana per i diritti umani, ammette che il 90 per cento degli insediamenti sono stati costruiti su quella che è nominalmente terra “statale”, ma sostiene che circa il 40% di Giudea e Samaria (Cisgiordania) ora rientra in quella categoria. Ciò rappresenterebbe una vasta espansione rispetto al 16% dei terreni che erano stati considerati pubblici durante l’occupazione giordana (è da ricordare che secondo le statistiche di B’Tselem, solo circa il 5% del territorio della Cisgiordania rientra nei “confini municipali” degli insediamenti). Però come riconosce la stessa B’Tselem, la stragrande maggioranza di questa terra si trova nella Valle del Giordano, che, con la principale eccezione della città di Gerico, era a malapena popolata da arabi palestinesi prima del 1967.
Una delle pubblicazioni citate più frequentemente da B’Tselem sostiene che Ma’aleh Adumim, il più grande insediamento israeliano in Giudea e Samaria, a pochi chilometri ad est di Gerusalemme, si trova su un territorio sottratto a cinque villaggi arabi palestinesi e quindi rappresenta un esproprio. Ma poiché agli abitanti dei villaggi manca un qualsiasi titolo registrato che ne attesti la proprietà o anche dei semplici documenti non registrati che ne attesti una qualche titolarità, B’Tselem sostiene che la popolazione beduina Jahalin, che si accampa in modo intermittente e pascola il bestiame sulla terra ad est di Gerusalemme scendendo nel Mar Morto, ha effettivamente guadagnato il diritto alla proprietà della terra a causa del loro uso prescrittivo (una sorta di uso capione) della terra.
Forse, questa tesi può essere vera per questo “particolare principio di proprietà” – peraltro mai applicato in nessuna parte del mondo dove vige lo stato di diritto – ma anche così è tutt’altro che chiaro come un diritto dei beduini alla terra abbia qualcosa a che fare con le rivendicazioni legali degli abitanti dei villaggi palestinesi di 70 anni prima. Per giustificare questo “principio retroattivo” B’Tselem offre questo argomento piuttosto sorprendente: “Hanno pascolato sulla terra dei villaggi in conformità a degli accordi di locazione simbolici (una stretta di mano) con i proprietari terrieri, compresi i proprietari terrieri dei villaggi di Abu Dis e al’Izariyyeh”.
In altre parole, per B’Tselem – e successivamente per gran parte della comunità internazionale – solo i villaggi arabi palestinesi possono essere costruiti e ampliati sul questa terra perché i beduini di tanto in tanto hanno pascolato i loro greggi in base al consenso implicito (e simbolico) degli abitanti dei villaggi palestinesi. Ma quegli stessi abitanti dei villaggi hanno diritto alla terra solo per il suo uso da parte dei beduini. Una tesi che nei tribunali di un qualsiasi Stato di diritto verrebbe rigettata come inconsistente e fantasiosa. E’ chiaro che questa tesi non ha nessun fondamento giuridico ma è solo una precisa posizione politica: gli arabi hanno diritto alla terra mentre gli ebrei no nonostante il diritto internazionale derivante dal Mandato Britannico per la Palestina del 1922 affermi esattamente il contrario.