Israele e Medio Oriente

Il problema dei rifugiati: Due pesi e due misure-Parte terza

Dopo aver analizzato, negli articoli precedenti dedicati al tema, le cause che hanno portato all’attuale problema dei rifugiati e come l’UNRWA non solo non lo abbia risolto, ma lo abbia amplificato, nel presente articolo verrà affrontata la questione del loro uso politico e la questione mai affrontata dei profughi ebrei dai paesi arabi.

Precedentemente si sono analizzate le risoluzioni 212 e 302 con cui l’ONU cercò di dare una risposta immediata alle necessità dei rifugiati causati dagli scontri militari del 1948. Si entrerà qui nel merito delle più importanti risoluzioni successive.

Già nella definizione che gli viene applicata, il “rifugiato palestinese” si differenzia dalla definizione valida per tutti i rifugiati del mondo (quella stabilita con le Risoluzioni 319 del 3 dicembre 1949 e 429 del 14 dicembre 1950 dell’Assemblea Generale). Per i profughi palestinesi è diventata consuetudine essere  identificati come persone che “hanno vissuto” sotto il Mandato britannico per la Palestina tra il 1946 e il 1948: quindi tutti gli arabi del Mandato e coloro i quali pur non essendo residenti ufficiali erano presenti per lavoro o ospiti. Come si può intuire, questa definizione mancando di requisiti oggettivi è stata deformata e strumentalizzata ad arte nel corso dei decenni, anche perché è bene ricordare che nessuna risoluzione dell’ONU vincolante o meno si è mai riferita agli abitanti arabi della Palestina come “palestinesi” nell’immediato dopo guerra. Questo termine è stato introdotto a partire dagli anni Sessanta.

I rifugiati palestinesi e la Risoluzione 194 dell’Assemblea Generale.

La Risoluzione 194 dell’Assemblea Generale dell’11 dicembre 1948, è stata presentata, nel corso degli anni e fino ai nostri giorni, da parte palestinese e dei loro sostenitori, come la “fonte unica” del diritto internazionale, per risolvere la questione dei profughi. A scanso di equivoci, bisogna subito precisare che questa risoluzione, come tutte le risoluzioni dell’Assemblea Generale, non ha valore legale per il diritto internazionale.

Facendone attenta lettura, si scopre che la risoluzione in questione è molto più ampia e articolata rispetto al problema dei profughi. Infatti in essa si parla della demilitarizzazione di Gerusalemme, del libero accesso per tutti gli abitanti ai luoghi santi per le tre religioni e il libero accesso a Gerusalemme. Cose tutte disattese con l’occupazione giordana della città. Quindi vi è una cornice, nella 194, molto più ampia del solo problema dei rifugiati. Per quanto concerne il problema dei rifugiati, il solo riferimento contenuto nella risoluzione è il paragrafo 11 che si riporta qui per intero e in originale (vedi documento 1):

11 “Dispone che i rifugiati che desiderano tornare alle loro case e vivere inpace con i loro vicini dovrebbero essere autorizzati a farlo al più presto possibile e che dovrebbe essere versato un indennizzo per le proprietà di coloro che scelgono di non tornare o per perdita o danno alla proprietà che, secondo i principi del diritto internazionale o del patrimonio netto, dovrebbe essere effettuata dai governi o dalle autorità responsabili;
Incarica la commissione di conciliazione di facilitare il rimpatrio, il reinsediamento e la riabilitazione economica e sociale dei rifugiati e il pagamento di un indennizzo e di mantenere stretti rapporti con il direttore del Soccorso delle Nazioni Unite per i rifugiati in Palestina e, tramite essa, con gli organi appropriati e agenzie delle Nazioni Unite;” […]

Come evince dal testo, questa risoluzione non parla di “diritto al ritorno” ma di risistemazione o rimpatrio – come del resto in altre risoluzioni ONU, scritte per i rifugiati della II guerra mondiale o di altri conflitti – in una cornice di trattative tra le parti, e si riferisce specificatamente alle persone che “desiderano vivere in pace con i vicini” cioè tramite accordi di pace tra le parti. Il cosiddetto “diritto al ritorno” è dunque un mito privo di qualsiasi base legale. Ciò nonostante esso è ancora oggi abbondantemente utilizzato a livello politico e mediatico. Inoltre, a ulteriore conferma del suo valore nullo per il diritto internazionale, si può rimarcare che la Risoluzione 194 non è mai stata citata in nessuna successiva trattativa vincolante tra le parti: non è citata nel trattato di pace tra Israele ed Egitto, non è citata nel trattato di pace tra Israele e la Giordania e non è nemmeno citata negli accordi di Oslo con l’OLP di Arafat. In tutti questi casi è sempre e solo citata la Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza. Quindi si può facilmente intuire che la risoluzione di riferimento, anche nel caso dei rifugiati, è la Risoluzione 242 e non la 194. Cosa dice in merito la 242?

I rifugiati e la Risoluzione 242

Ne riportiamo per intero il testo in originale:

In questa basilare risoluzione, il tema dei rifugiati è affrontato nel punto 2 paragrafo b), nel quale il Consiglio di Sicurezza afferma la necessità di “raggiungere una giusta soluzione al problema dei rifugiati”. In questa semplice frase è contenuta tutta l’attuale questione dei rifugiati. Cosa si intende per “giusta soluzione”? E chi sono i “rifugiati”?

Per quanto concerne il tema della “giusta soluzione” per i rifugiati si intende, come per tutti gli altri casi nel mondo, una soluzione negoziata tra le parti e non una decisione imposta. Soluzione che non è affatto semplice in quanto il numero dei rifugiati palestinesi è cresciuto a dismisura a causa di criteri mai applicati a nessun altro rifugiato al mondo. Di non secondaria importanza è il rifiuto categorico degli Stati arabi ad ammettere le loro responsabilità sia per la questione dei rifugiati palestinesi sia per quella relativa ai rifugiati ebrei. E qui troviamo il significato al termine “rifugiati” della Risoluzione 242. Perché si parla volutamente di “tutti i rifugiati” e non solo quelli arabi. Da che cosa si evince questa interpretazione? Da come questo tema è stato affrontato in seno al Consiglio di Sicurezza.

Nell’articolo apparso su l’Informale il 25 settembre scorso dedicato alla Risoluzione 242, veniva evidenziato come la questione dei “territori” venne affrontata e sviluppata nel corso delle diverse bozze presentate dai membri del Consiglio di Sicurezza. La stessa cosa è successa per la questione dei rifugiati. Nello specifico la bozza sovietica della risoluzione presentata il 20 novembre 1967 (la S/8253 come è catalogata presso l’ONU) parlava esplicitamente di una giusta soluzione dei “rifugiati palestinesi”. Mentre quella inglese (la S/8247) parla più in generale di “rifugiati”. Questa genericità è voluta per includere tutti i rifugiati causati dalle guerre arabo-israeliane. Così come si evince dai verbali e dalle dichiarazioni dei diplomatici dei paesi dell’allora Consiglio di Sicurezza. Il 22 novembre fu approvata la versione inglese. Tutto questo fu poi riconfermato con la risoluzione 338 del 1973 del Consiglio di Sicurezza.

In merito alla questione dei rifugiati, anche gli accordi di Oslo sono espliciti: la soluzione va trovata in seno ad un accordo tra le parti. Le parole utilizzate sono identiche a quelle della Risoluzione 242: la parti concordano che una soluzione comprensiva al conflitto in Medio Oriente deve prevedere “una giusta soluzione al problema dei rifugiati”, questo è riportato sia nella Dichiarazione dei Principi del 13 settembre 1993, sia negli accordi ad interim del settembre 1995.

A questa analisi si può aggiungere un altro caso, tra i tanti ancora aperti nel mondo, per capire come la politica alteri completamente la percezione del diritto quando c’è di mezzo Israele.

E’ il caso di Cipro e il relativo caso dei rifugiati e il loro “diritto al ritorno”. In molti sanno che circa un terzo dell’isola di Cipro è occupata militarmente dalla Turchia dal 1974. A causa di questo intervento armato si è verificato un flusso di rifugiati greco-ciprioti dalle zone occupate dai turchi verso sud ovest, e un certo numero di profughi turco-ciprioti verso le zona di occupazione turca dell’isola. Da allora le posizioni si sono cristallizzate e tutte le trattative di pace si sono arenate. La Repubblica di Cipro (quella greco-cipriota) è lo Stato riconosciuto a livello internazionale, mentre la Repubblica turca di Cipro del nord (la parte dell’isola occupata dai turchi) è riconosciuta solo dalla Turchia, mentre risulta essere occupata per il consesso internazionale e per il diritto internazionale. Il 1° maggio 2004 la Repubblica riconosciuta di Cipro è diventato Stato membro dell’UE nonostante quasi un terzo del suo territorio sia occupato da un altro Stato. Da allora numerosi cittadini ciprioti, scappati dalle loro case occupate dai turchi e quindi profughi, si sono rivolti alla Corte Europea dei diritti umani per avere giustizia. Fino al 2005 numerose sentenze sono state emesse in loro favore relativamente alle proprietà perdute anche se sempre disattese dai turchi. Ma nel 2010 c’è stata una nuova sentenza della suddetta Corte (per chi volesse approfondire la questione i riferimenti sono: ECtHR, Demopoulos v Turkey, App no 46113/99, 1 March 2010, paras 84–85). Specificatamente la questione verteva sul “diritto al ritorno” dei greci-ciprioti nelle loro proprietà. Bene, la Corte Europea ha rigettato la richiesta dei ciprioti adducendo come motivo che è passato troppo tempo dai fatti – 36 anni – e che nel frattempo molte proprietà sono passate di mano tra diversi proprietari, tra i quali cittadini turchi inviati appositamente dalla Turchia a colonizzare un territorio poco abitato. Quindi, per la Corte Europea, risulta impossibile pensare ad una restituzione dei beni e al ritorno dei proprietari greco-ciprioti. Al massimo si deve trovare un accordo tra le parti per una compensazione. Questa sentenza è già allo studio di esperti di diritto internazionale come caso di giurisprudenza. E sicuramente verrà utilizzato per altri casi simili. Qui si possono fare solo alcune ulteriori considerazioni.

La sentenza non parla del fatto che la Turchia sia, in aperta violazione del diritto internazionale, uno Stato che occupa parte di un altro Stato. Anzi in questo caso è proprio la Turchia stessa che ha presentato la tesi difensiva al posto dei turco-ciprioti la cui autorità non è riconosciuta a livello internazionale. Inoltre, non vi è nessuna menzione del fatto che la Turchia ha trasferito della popolazione dalla madre patria in aree occupate con l’intento di modificarne la natura demografica. Semplicemente i ciprioti devono accordarsi con i turchi per le eventuali riparazioni.

Lo stesso principio è stato utilizzato dall’ONU o dagli USA per trovare una mediazione internazionale nel caso del Sahara Occidentale, nel caso della Cambogia, del Nagorno-Karabakh, o di Timor Est per citare i casi più noti.

Alla luce di tutto questo risulta davvero incomprensibile perché, soprattutto, in Europa si indichi in Israele il solo colpevole del fatto che non sia stata ancora trovata una soluzione soluzione al problema dei profughi palestinesi, e debba essere garantito loro il “diritto al ritorno” mai applicato altrove e per di più in casi di reale occupazione come sancito dalla Convenzione dell’Aia e dalla IV Convenzione di Ginevra.

I rifugiati ebrei dai paesi arabi

Con lo scoppio della prima guerra arabo-israeliana, la quasi totalità delle comunità ebraiche che vivevano nei paesi arabi furono costretti ad abbandonare le loro case e proprietà. In taluni casi – come nel caso dello Yemen con l’operazione denominata “tappeto volante” – furono salvati e portati in Israele con operazioni aeree che non avevano precedenti per uno Stato piccolo come Israele.

Tra il 1948 e il 1967, secondo le stime più attendibili, furono oltre 800.000 gli ebrei che abbandonarono le loro case (vedi tabella 1). La maggior parti di essi furono accolti in Israele, oltre 550.000, gli altri si rifugiarono, principalmente, in Europa e negli USA.

A differenza dei rifugiati arabi, gli ebrei furono ben accolti in tutti i paesi dove si recarono. Per cui la loro integrazione, pur tra mille difficoltà, si compì velocemente. E’ da sottolineare lo sforzo incredibile che Israele fece per assorbire i rifugiati ebrei: nel giro di qualche anno lo Stato si vide raddoppiare la popolazione. Questa gente per la maggior parte era povera, analfabeta e in grande difficoltà ad inserirsi in una società già avanzata come quella israeliana. Ma l’enorme volontà di chi accolse e di chi fu accolto permise un inserimento rapido che fece si che i nuovi arrivati divennero parte attiva della società. Così fu anche per i profughi che si stabilirono in Francia, Italia, Gran Bretagna e Stati Uniti.

Inoltre, in vari Paesi arabi, dopo la vittoria israeliana nella guerra d’indipendenza, per aumentare la pressione sugli ebrei residenti furono approvate delle leggi discriminatorie che prevedevano la confisca di tutti i loro beni. In taluni casi si arrivò alla revoca della cittadinanza, come ad esempio con la legge n. 1 del 1950 in Iraq o con la legge sulla nazionalità egiziana del 1926, che con una modifica del novembre 1956 dichiarava i “sionisti” privi di nazionalità senza peraltro specificare dei criteri precisi per definirli.

Nel corso dei decenni successivi alla cacciata delle comunità ebraiche dai paesi arabi, molti leader arabi arrivano a sostenere che gli ebrei lasciarono i loro paesi di origine “volontariamente” e che quindi non potevano definirsi profughi e nulla era loro dovuto. Come si comportò l’ONU a tale riguardo?

I profughi ebrei e le risoluzioni ONU

Da una attenta analisi delle risoluzioni ONU, effettuata Dott. Stanley Urman e dal suo staff, attraverso il sistema informatico dell’ONU per le ricerche sulla questione relativa alla Palestina (www.un.org/unispal) e il Medio Oriente emerge un dato significativo:

Dal 1946 al 2010, su un totale di 288 risoluzioni del Consiglio di Sicurezza relative al Medio Oriente, quelle riguardanti i profughi palestinesi sono state 9, quelle relative ai profughi ebrei 0.

Dal 1946 al 2010, su un totale di ben 800 risoluzioni dell’Assemblea Generale relative al Medio Oriente, quelle concernenti ai profughi palestinesi sono state 163, quelle relative ai profughi ebrei 0.

L’unica risoluzione, anche se non cita espressamente i profughi ebrei, che tratta di “tutti” i profughi è la Risoluzione 242.

La stessa cosa accade se si guardano le risoluzioni della Commissione dei diritti Umani, poi diventata Consiglio per i Diritti Umani, che a fronte di 132 risoluzioni relative ai profughi palestinesi non ha adottato nessuna risoluzione relativa ai profughi ebrei.

Questa disparità d’attenzione è chiaramente di natura politica. Scorrendo i documenti del Palazzo di Vetro, si trovano centinaia di rapporti presentati da governi, ONG, e perfino di commissari dell’Alto Commissariato per i rifugiati come August Lindt nel 1957 o di E. Jahn nel luglio del 1967, che mettevano in luce il grande problema umanitario degli ebrei che avevano abbandonato le proprie case. Tutti questi rapporti non portarono a nulla in tutte le sedi ONU per il semplice motivo che non ottenevano mai il numero minimo di voti a favore per fare adottare delle risoluzioni.

Infine, per far comprendere bene come all’ONU la questione dei rifugiati sia trattata in modo asimmetrico, basta scorrere le agenzie dedicate ai profughi arabi e quelle dedicate ai profughi ebrei.

Agenzie ONU per i profughi arabi:

UNRWA

UNCCP (Commissione di Conciliazione delle Nazioni Unite per la Palestina)

Commissione per i Diritti Inalienabili del Popolo Palestinese

Sezione delle Nazioni Unite per i diritti dei palestinesi

UNDOP (Programma di assistenza delle nazioni unite per il popolo palestinese)

ESCWA (Commissione Economica e Sociale delle Nazioni Unite per l’Asia dell’Ovest)

OCHA (Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento delle questioni umanitarie)

Ufficio del Coordinatore Speciale del processo di pace del Medio Oriente

Agenzie ONU per i profughi ebrei

Nessuna

Non è difficile capire del perché l’opinione pubblica sia convinta che esista solo la “questione dei profughi palestinesi” e non quella relativa ai profughi ebrei.

 

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