Il 24 maggio a Parigi, la Corte di Appello si pronuncerà relativamente a Georges Bensoussan. Sapremo se il grande studioso, uno dei maggiori intellettuali francesi contemporanei, verrà, come ci auguriamo, assolto o invece, condannato. Bensoussan venne già processato nel gennaio del 2017 perché accusato di “incitamento all’odio razziale”.
La sua “colpa” fu di avere commentato durante una trasmissione radiofonica una frase di un sociologo algerino, il quale aveva affermato che nel lessico famigliare di numerose famiglie arabe, “ebreo” viene insegnato come insulto fin dalla tenera età.
Sì, aveva glossato Bensoussan, ripetendo il concetto espresso dallo studioso algerino “in queste famiglie l’antisemitismo lo si succhia con il latte materno”. Per avere detto questo è stato costretto a discolparsi presso la XVII Camera penale del Tribunal de grande instance di Parigi. In sua difesa si pronunciò tra gli altri anche il celebre scrittore algerino Boualem Sansal. Nel marzo del 2017 venne assolto.
Pubblichiamo oggi in esclusiva italiana, congiuntamente con “Caratteri Liberi” ,”Italia Israele Today” e “Progetto Dreyfus”, l’intervista che Bensoussan ha rilasciato il 23 aprile scorso.
Sarah Cattan incontra Georges Bensoussan alla vigilia del processo della vergogna.
Il primo che dice la verità, sarà giustiziato, dice la canzone. Lui, un bel mattino, è stato accusato di tutti i mali. Per una parola. Aveva commesso la porcheria di generalizzare, scrisse questo giornalista “correligionario”.
Aveva essenzializzato. Realizzato un discorso degno di un Drumont. Denunciato l’antisemitismo usando armi di distruzione razziste. È stato fatto un processo per sapere se sarebbe stato impiccato o bruciato.
Ci eravamo incontrati il 6 marzo 2017, il giorno prima del giudizio. Dopo il breve momento di respiro offerto dall’annuncio dell’assoluzione, molto rapidamente lo sconforto: il Pubblico ministero ricorreva!
Il Pubblico ministero. E l’LDH (Lega per la Difesa dei diritti dell’Uomo) e il MRAP (Movimento contro il Razzismo e per l’Amicizia tra i Popoli) seguirono, allineandosi di nuovo con il CCIF (Collettivo Contro l’Islamofobia in Francia).
Il processo in appello si doveva svolgere il 29 marzo, questa volta davanti alla Camera 2, Pole 7, della Corte d’appello di Parigi. Ancora una volta, ci siamo incontrati poco prima.
La Licra, Georges Bensoussan. La sua presenza a fianco dei querelanti. La sua assenza in appello. Non sono questi risvegli pur sempre in ritardo …
Non voglio fare commenti sulla Licra, ha già molto da fare con la crisi interna che l’ha scossa, segnata da molte partenze e dimissioni che hanno seguito la denuncia nei miei confronti. Ci sarà tempo, un giorno, per analizzare le responsabilità di questo atteggiamento dove non si può trascurare nemmeno il ruolo della piccolezza del giudizio. Ma dal momento che lei mi interroga su questo argomento, vorrei rendere omaggio a coloro che dall’interno della LICRA mi hanno sostenuto pagandone talvolta il prezzo. Perché, come al tempo delle officine staliniane, furono cacciati dal loro posto. Non tutti hanno avuto il coraggio e, pur disapprovando tacitamente il trio accusatore, sono rimasti prudentemente silenziosi.
Come ha vissuto, Georges Bensoussan, questa folle parentesi tra l’incriminazione ed oggi? Mi aveva parlato recentemente della sua stanchezza. L’interruzione della scrittura. In conclusione: hanno vinto loro.
Questo è precisamente l’obiettivo della strategia della molestia giudiziaria, far perdere tempo, distrarre dall’essenziale e spezzare lo sforzo intellettuale. Far tacere coloro che parlano e intimidire coloro che sarebbero tentati di farlo. Nel complesso, ci riesce bene. A fortiori per mezzo del terrore sanguinante. Si è notato che nonostante la dimostrazione unanime dell’11 gennaio 2015 che seguì il massacro della redazione di Charlie Hebdo (già tre anni sono passati), non si è più vista una sola caricatura del profeta sulla stampa francese?
Georges Bensoussan, ci furono coloro che presero risolutamente posizione al suo fianco. Coloro che si sono dimostrati avversari. E poi la gran massa di tutti quelli che si sono astenuti. Certamente si perdono anche delle illusioni, per strada, Georges Bensoussan? l’odiato si, ma… dei nostri amici Frédéric Haziza, Laurent Bouvet, Cindy Leoni, Patrick Klugman, Caroline Fourest, Rudy Reichstadt.
Nessun commento da fare sulle persone che cita. In compenso voglio rendere omaggio ed esprimere il mio riconoscimento a questi sostegni della prima ora, da Yves Ternon a Jacques Tarnero, da Pierre-André Taguieff a Michèle Tribalat, da Pierre Nora ad Alain Finkielkraut, da Élisabeth de Fontenay a Élisabeth Badinter senza dimenticare Boualem Sansal, Pascal Bruckner, Philippe Val e molti altri che furono al mio fianco fin dall’ottobre 2015. Così come a molti cittadini, noti o no, solidali attraverso il comitato di sostegno (più di 2500 persone) animato da Barbara Lefebvre. Il resto, lo lasciamo alla schiuma della storia.
Georges Bensoussan, lei aveva interrogato il tribunale: sono io che devo trovarmi di fronte a questa Corte oggi? Non è l’antisemitismo che ci ha portato alla situazione attuale che dovrebbe essere giudicato? E Finkielkraut le faceva eco denunciando questo anti-razzismo sviato che chiedeva alla Giustizia di criminalizzare un’inquietudine, invece di combattere ciò che lo stava dissolvendo. Due anni dopo questo 25 gennaio, l’atmosfera non è peggiorata? Undici mesi per riconoscere, quasi tappandosi il naso, la dimensione antisemita dell’assassinio di Sarah Halimi.
L’atmosfera è rigorosamente la stessa: non ha d’altronde nessun motivo di essere cambiata, perché se si comprende il significato profondo della “crisi ebraica della società francese”, sentiremo che è prima di tutto una crisi della nazione francese che supera, e di gran lunga, il destino della comunità ebraica. Anche se è lei che ne paga oggi il prezzo più pesante. Diverse cause profonde sono in azione che firmano la partenza programmata degli ebrei di Francia. Con “partenza”, non si deve intendere solo l’attraversamento delle frontiere verso altre destinazioni (compreso ovviamente lo Stato di Israele). Il più delle volte si tratta di un esilio interno che prende la forma di una “marranizzazione” delle coscienze e dei comportamenti. Ma che si incarna anche in questo esodo interno che, negli ultimi vent’anni, ha visto la Seine-Saint-Denis, per esempio, perdere la maggior parte delle sue comunità ebraiche. Pensare che questa o quella dichiarazione di un responsabile politico, marziale, determinata e generosa riuscirebbe ad arginare questa deriva è far mostra di un candore commovente. Come pure ritenere che vi contribuirà l’istituzione di un nuovo comitato, o di un ennesimo polo di vigilanza contro l’antisemitismo. O anche giudicare che l’educazione alla “tolleranza”, alla “accoglienza dell’Altro” e alla promozione del “vivere insieme”, rinforzata evidentemente da un supplemento d’insegnamento della storia della Shoah, riuscirà a sradicare la piaga che mina la società ebraica di Francia, è far prova di una sorprendente ingenuità sociologica.
Se vogliamo capire cosa ci ha portato qui, è meglio leggere Jacques Julliard, Jean-Pierre Le Goff, Christopher Guilluy, Louis Chauvel e alcuni altri tra cui Michèle Tribalat e Christopher Caldwell per l’aspetto demografico. Allora capiremo meglio di cosa si tratta. E che di conseguenza, al di là delle dichiarazioni di buone intenzioni, tutto lascia pensare che l’abbandono degli ebrei di Francia è in corso. Perché sposa pure, e soprattutto, la logica della frammentazione sociale geografica che porta all’abbandono delle classi popolari da parte di alcune élite di questo paese. E in primo luogo dalla sinistra istituzionale, come l’hanno presto mostrato Eric Conan (dal 2004) e Jacques Julliard. Per il momento, con l’abbandono progressivo degli ebrei (si veda il tergiversare al quale ha dato luogo il laborioso riconoscimento della natura antisemita di certi crimini, a partire ovviamente da quello di Sarah Halimi), e nonostante le buone intenzioni espresse e reiterate al vertice dello Stato, sia di destra che di sinistra, peraltro, alcuni sperano di comprare la pace sociale. O almeno ottenere una tregua per mantenere, ancora per un po’, questa illusione nel proprio intimo mediatico e geografico che è loro proprio. Speriamo solo per loro che questo non crolli troppo rapidamente sotto il peso delle realtà sociologiche e demografiche del paese. Ora, queste realtà non le sentirete affatto analizzate nel discorso mediatico dominante che caratterizza questo intimo borghese che ho evocato prima, segnato da questa postura morale che si dà da sola l’immagine lusinghiera dell’ “apertura di ‘spirito’ e dell’ ’’amore per l’Altro”. Relegando ogni contraddittorio al suo “semplicismo”, alla sua “stupidità” e alla sua “aridità di anima e di cuore”. In altre parole, meno all’errore che al campo del male che vi situa in cambio, vuoi, nella figura del bene e della virtù.
Questa è, tra l’altro, la risposta alla domanda che mi ha fatto all’inizio dell’intervista sulla mia presenza nei media. Sarà rapida: la mia presenza è quasi nulla, con alcune eccezioni tra cui la sua, Marianne et Le Figaro. Questo, tra l’altro, è la ragione di questo frastuono procedurale, decretarmi infrequentabile sotto il peso dell’accusa di razzismo e fare in modo che ci si allontani da me. L’essere gregario (conformista) dei media e la mancanza di coraggio fanno il resto. Per esempio, non sono mai più stato invitato a France Culture, eppure è l’emissione dello “spirito d’apertura”. Sono una di quelle presenze “sulfuree” che generalmente vengono qualificate “disgreganti” quando le si vogliono scartare. Questo fa parte di questa strumentalizzazione dell’antirazzismo, analizzata già da oltre vent’anni da Paul Yonnet e Pierre-André Taguieff. Un antirazzismo disonesto che finisce per riversarsi in queste accuse demonizzanti che risuonano come l’eco lontana dei processi di stregoneria del XVII° secolo.
Si fabbrica un mostro morale per ostracizzarlo meglio, cioè per zittirlo. Il che si ricongiunge anche, è ben vero, con la tendenza di fondo delle società democratiche che Tocqueville definiva la tirannia della maggioranza. Vorrei ricordarle queste parole, vecchie di quasi due secoli, tratte da Della Democrazia in America (1835): “Prima di pubblicare le sue opinioni, pensava di avere dei partigiani; gli sembra di non averne più, ora che si è rivelato a tutti; perché quelli che lo biasimano, si esprimono a voce alta e quelli che la pensano come lui, senza avere il suo coraggio, tacciono e si allontanano. Egli cede, si piega alla fine sotto lo sforzo quotidiano e rientra nel silenzio, come se provasse rimorso per aver detto il vero”.
Gli ebrei di Francia si sentono abbandonati? Lei dice che la pace sociale, in Francia, si sta comprando sulle spalle degli ebrei. Preservare la pace civile a detrimento, come al solito, degli oltraggi imposti agli ebrei. E che questo abbandono è andato di pari passo con quello delle classi più popolari.
Nel Maghreb coloniale, all’epoca di violenze antisemite perpetrate dalla popolazione araba, l’amministrazione francese chiedeva discretamente alla giustizia di non avere la mano “troppo” pesante nel verdetto. Meno per antisemitismo che per timore di dover affrontare la “piazza araba“. Noi viviamo al momento, in Francia, una forma di trasposizione di questo schema coloniale. Non si tratta di “post colonialismo” come lo pretendono coloro che sperano di riattivare nel cuore dell’Esagono i combattimenti anticolonialisti di un tempo. Fingendo di vedere all’opera in Francia, ad onta di ogni realtà, uno “Stato razzista“. Si tratta di altra cosa: gli schemi antisemiti venuti dal Maghreb coloniale e precoloniale sono stati importati con l’onda migratoria degli ultimi quarant’anni. Negare questa realtà e la forza di questi stereotipi antiebraici, è solo dimostrare che si ignora la storia del Maghreb alla quale si preferisce una leggenda tessuta di buoni sentimenti sul fondo del “vivere insieme”, una bella storia che nel 1948, ahimè, la creazione dello Stato ebraico avrebbe rotto.
In Francia, questi stereotipi anti-ebraici sono stati riattivati nella seconda, o addirittura nella terza generazione, nutriti col risentimento e la gelosia sociale nei confronti di una comunità ebraica tradizionalmente disprezzata nel Maghreb (« yahoudi hashak ! “) ma qui ben integrata e generalmente di alto livello socioculturale. All’epoca della elaborazione dei Territori perduti della Repubblica, già nel 2002, avevamo compreso che bisognava scollegare questo anti-giudaismo culturale dal conflitto arabo-israeliano. Col rischio, se no, di non vedere l’aspetto endogeno di questa situazione. Lo si vede più chiaramente oggi dove anche quando l’attualità di questo conflitto appare più calma, l’aria di fondo, in numerosi quartieri, rimane contrassegnata dall’antisemitismo. E per poco che questo conflitto in un domani sia riattivato, come fu il caso nel 2014, si potrebbe temere un ritorno della violenza. Numerosi franco-israeliani incontrati recentemente mi hanno del resto detto di quanto le violenze del luglio 2014 avevano pesato sulla decisione della loro partenza. Con nel cuore il sentimento di una Repubblica che non li proteggeva più, (nel momento stesso che il governo diretto da Manuel Valls era uno dei più vigili in materia). Numerosi di loro me l’hanno detto col tono del dispiacere, avevano il sentimento, che dura fino ad oggi, che questo paese che amavano, (e che sovente amano ancora) con tutta la loro anima li stava abbandonando. Si è cominciato appena a scrivere la storia di questo divorzio tragico.
Georges Bensoussan, mentre il BNVCA (Ufficio Nazionale di Vigilanza contro l’Antisemitismo) parlò, riferendosi a lei, di un processo di stregoneria e Boualem Sansal di un controsenso intellettuale, accusando coloro che l’avevano accusata di cultura della confusione per aver così prestato la mano al CCIF, mi chiedevo dove fossero il CRIF ed il Concistoro.
Si tratta meno di distribuire delle buone o delle cattive note che di capire le logiche interne che hanno portato alcuni a disertare. Per interesse istituzionale, per interesse di classe e anche per pusillanimità ed assenza di visione, con la stessa “intelligenza politica” che avevano dimostrato nel passato, dall’affare Dreyfus al 1940 una parte delle élite ebraiche della Francia. È in questo senso che si può dire che non c’è una “comunità ebraica”, ma una società ebraica attraversata da conflitti e tessuta, anch’essa, di questa cascata di disprezzo che costituisce le gerarchie sociali. Si prova vergogna a profferire una tale banalità, ma è necessario per quanto la negazione dei rapporti sociali è insita nelle logorrea moralizzatrici di oggi: non si percepisce la realtà nello stesso modo a seconda che si appartenga a degli ambienti più o meno dotati culturalmente, economicamente e socialmente. E che ci fanno sentire la nostra esistenza più o meno legittima. Ciò detto, rendo qui omaggio al Concistoro centrale, a Joël Mergui, così come al Gran rabbino di Francia, Haïm Korsia, sostegno fin dai primi giorni.
Georges Bensoussan, di fronte ad un Mohammed Sifaoui e al suo biberon riempito con un latte fabbricato in Israele, o ad una Nacira Gjuénif, al loro El Youd, hachek, espressione idiomatica, esistono dei Boualem Sansal che corroborano i suoi prestiti da Smaïn Laacher e hanno affermato che dire che l’antisemitismo discendeva dalla cultura, era semplicemente ripetere ciò che era scritto nel Corano ed insegnato nella moschea, dei Saïd Ghallab che scrissero [1] , sotto il titolo, gli ebrei vanno in inferno, che il peggiore insulto che un marocchino poteva fare ad un altro, era il trattarlo da ebreo, aggiungendo : è con questo latte di odio che siamo cresciuti…Marc Weitzmann, in Una famiglia francese, basandosi sulle conversazioni in sala visite tra Zoulijha ed il fratello di Mohamed Merah [2], parla di un clan drogato alla violenza ed all’antisemitismo. Di un incontro tra la Storia e la patologia. Dell’ultrarealismo di una violenza irreale. Di un lungo delirio tossico dove la realtà sociale si dissolve. Questa conversazione non fa che illustrare ciò che l’ha portata in tribunale?
Queste verità sono accecanti nel vero senso del termine. Sono così terribili che impediscono di vedere e infatti non si vedono. Senza far riferimento agli studi colti, innumerevoli, sull’argomento (soprattutto in inglese), e senza neanche riprendere la mia opera Juifs en pays arabes. Le grand déracinement 1850-1975 (Tallandier, 2012), e che è del resto, in parte, all’origine di questa cabala giudiziaria, vorrei ricordare le parole pronunciate l’8 novembre 2017, durante una trasmissione presentata da David Pujadas su LCI, da Amine El Khatmi, presidente dell’associazione “Primavera repubblicana”: C’è un antisemitismo storico che si trasmette in un certo numero di famiglie arabe o musulmane nei nostri quartieri, dichiarava lei, e avete delle generazioni di bambini che si educano spiegando loro che lo yahoudi, cioè l’ebreo in arabo, è il nemico numero uno, sullo sfondo anche di importazione del conflitto israelo-palestinese. Quando avete delle generazioni di ragazzini che sono educati con questi schemi, che considerano che questo schema è l’unico normale poiché è l’unico che viene loro insegnato e che viene fatto passare, si spiega loro che l’ebreo è la figura odiata numero uno, come volete che poi questi ragazzini non si costruiscano e non crescano nell’odio di Israele, ma anche dell’Ebreo?”
Il giorno prima, nel giornale Le Monde (7 novembre 2017), il produttore cinematografico franco-tunisino Saïd Ben Saïd scriveva: “La lettura letterale del Corano, sprovvista di qualsiasi contesto storico, dà luogo da un secolo e mezzo circa a dei propositi deliranti sugli Ebrei. Il Corano comporta un gran numero di versetti che riguardano gli ebrei alcuni dei quali sono molto ostili nei loro confronti. Da bambini, li apprendevamo a memoria a scuola. Gli ebrei erano per noi perfidi, falsificatori, immorali, diabolici ecc.” Un mese prima, a Parigi, al processo di Abdelkader Merah, si era sentito Abdelghani, uno dei tre fratelli, dichiarare: ” Sono cresciuto in una famiglia che coltivava l’odio dell’ebreo, l’odio della Francia. (…). Mia madre mi ha detto: guarda ciò che fanno gli ebrei ai bambini palestinesi. Se ne uccideranno tanti quanti essi ne hanno uccisi. Gli arabi sono nati per detestare gli ebrei.” Lei diceva pure: “gli ebrei possiedono il mondo e rubano il lavoro degli altri.” Che dopo tali constatazioni, io sia portato in giudizio c’è in questo qualcosa di irreale, addirittura di delirante come il segno di una società invischiata in uno schema orwelliano di servitù e di paura. E dell’ingresso in un’era di sospetto generalizzato. È cosi che questo secondo processo è percepito in Francia e soprattutto all’estero.
Dobbiamo deciderci a studiare l’antisemitismo nazista, stalinista, comunista, ed a tacere davanti all’antisemitismo proveniente dal mondo arabo-musulmano, tabù maggiore in nome dei famosi niente amalgama e rimproveri d’islamofobia? Dobbiamo accettare che le targhe commemorative che rendono omaggio alle vittime del terrorismo islamista non qualifichino tale terrorismo? Serge Hajdenberg dice bene che non c’è vittima senza carnefice.
In due parole, le ricorderò questa frase del presidente della Repubblica, M. Emmanuel Macron, durante la cena del CRIF il 7 marzo scorso: ” Non esisterebbe una lotta efficace contro l’antisemitismo senza nominare il male”.
[1] In Les Temps modernes. 1965.
[2] Le Nouveau Magazine Littéraire, N°1, gennaio 2018.
Traduzione di Claudia Bourdin a cura del Gruppo Sionistico Piemontese