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I leader di tutto il mondo ai funerali di Shimon Peres

«Io sono un sognatore che combatte». Posa le mani sul feretro di Shimon Peres, davanti ai grandi del mondo, poi cita un famoso canto ebraico: tocca a Reuven Rivlin, il decimo presidente che due anni fa è succeduto a Peres, aprire la cerimonia d’addio all’ultimo padre della patria, parlando come a un amico «da presidente a presidente», ricordando del predecessore la «grande capacità di concepire l’inconcepibile».
Sotto un tendone bianco, nel sole già autunnale del Monte Herzl, Gerusalemme e Israele s’inchinano a una semplice cassa coperta da una bandiera. In prima fila i figli e i nipoti del vecchio Shimon, di fianco Barack Obama con Bibi Netanyahu e la moglie Sara. Hollande vicino a Sarkozy, Federica Mogherini con Kerry, il ministro egiziano col re del Marocco, il principe Carlo (con un’elegante kippah ricamata) assieme al sovrano di Spagna. Subito dietro Matteo Renzi, pure lui con la kippah, un nastrino bianco e nero alla giacca come (quasi) tutti gli ospiti d’onore. Poco più in là Abu Mazen, che stringe la mano e scambia qualche parola col premier israeliano: è la prima volta in sei anni che il presidente dell’Autorità palestinese rimette piede a Gerusalemme, coi negoziati di pace congelati, una scelta criticatissima da Hamas che per oggi aveva proclamato una Giornata della Collera nei Territori. «Sono lieto di vedervi, è passato molto tempo, molto tempo…», mormora Abu Mazen a Bibi, ricordando l’ultima volta insieme a Parigi per la conferenza sul clima.

«E’ una cosa che apprezzo moltissimo», gli risponde lo storico nemico. Non c’è troppo tempo per i saluti privati, è l’ora del lutto, ed è il momento del ricordo di Netanyahu per «il meraviglioso Shimon», di ringraziare «voi che siete venuti da vicino e da lontano a Gerusalemme capitale d’Israele», per «un grande uomo del mondo», per il «testamento dell’ottimismo» che ci ha lasciato. «La forza è solo un mezzo – sono le parole del premier, che con un dito indica proprio Abu Mazen – il fine è la pace», anche se «solo i forti resistono e nel Medio oriente in tumulto è la forza la nostra garanzia, gli obbiettivi sono la prosperità e la pace»: «Era un grand’uomo per Israele, per il mondo, Israele e il mondo sono nel dolore. Ma noi e il mondo vogliamo trovare nella sua eredità le ragioni di sperare. Shimon era sicuro che alla fine la luce sarebbe riuscita a vincere le tenebre, era un uomo dalla grande statura, ti voglio bene, tutti noi ti amiamo». La città è deserta, il Paese in silenzio.
Sale sul palco Bill Clinton, la voce stanca, omaggia «il più grande sognatore». E’ quasi afono, come un popolo che oggi tace e basta, in questa lunga giornata dell’addio. Quindi Amos Oz sale in maniche di camicia, ha un’amicizia quarantennale da rammentare, parole che spaccano: «Shimon oscillava tra due valori solo apparentemente contrapposti, il profondo rispetto della realtà e la profonda passione nel cambiare la realtà». Lo scrittore guarda fisso Netanyahu e il messaggio è chiaro: «La pace non solo è possibile, ma essenziale e inevitabile». Gli dice che «non possiamo andare via da questa terra, ma anche i palestinesi non possono andarsene. Non potranno mai vivere nella luna di miele, non divideranno mai lo stesso letto. L’unica scelta è dividere questa casa in due: in fondo al cuore, tutti sanno questa verità. Ma dove sono i leader coraggiosi che potranno realizzare? Dove sono gli uomini come Peres?». Clinton ascolta, fa sì col capo e sorride. Suona un violino, il canto di David Dor: è la canzone della festa ebraica che Peres amava di più, la stessa che gli sussurrò Barbra Streisand per i novant’anni. E’ un momento di commozione, anche per chi è abituato ai funerali di Stato. Netanyahu ricorda come Shimon gli fu vicino per la morte del fratello, ucciso nel raid di Entebbe: «Tu hai pianto allora per lui e io oggi piango per te. Vai in pace. Le nazioni del mondo ti ricorderanno».

Fonte: Francesco Battistini per il Corriere.it

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