Lo sappiamo che cos’è la propaganda e che leggere determinati giornali come ad esempio Il Manifesto ci riporta indietro nel tempo all’epoca del Comintern e delle veline rosse. Racconteremo come Mosca diede nuove direttive all’Occidente genuflesso degli utili idioti, quando decretò nel 1957 che Israele era improvvisamente diventato “una pedina del gioco degli imperialisti”, affamato com’era di “mire espansioniste”. Questa vulgata è quella ancora in voga oggi tra le fila della sinistra terzomondista e dei compagni duri e puri sempre dalla parte degli “oppressi”.
Leggiamo un pezzo pubblicato qualche mese fa sul Washington Post da Assaf Gavron autore di “La Collina”, romanzo recensito tempo fa da Valentino Baldacci, e inizialmente si ha l’impressione netta di stare leggendo il Manifesto e un articolo firmato da Valentino Parlato, oppure un testo di Moni Ovadia sull'”Unità”. Sembra un ciclostilato dove la firma dell’autore serve solo a depistare facendo credere che si tratti di elaborazione soggettiva e non, come è in realtà, un prodotto del Newspeak orwelliano, l’impersonale lingua che annienta il pensiero individuale conformandolo a un dispositivo linguistico ferreo e implacabile.
Gavron, commentando gli attacchi al coltello che hanno quotidianamente afflitto Israele per mesi, così commenta, “C’è molto da discutere sulla natura e la tempistica della recente ondata di attacchi palestinesi – una risposta disperata all’elezione di un governo israeliano ostile che incoraggia i coloni estremisti ad attaccare i palestinesi. Ma in quanto israeliano, mi preoccupano di più le azioni della mia società, sempre più spaventose e violente”.
Fermiamoci un attimo. La violenza, gli accoltellamenti selvaggi e indiscriminati sarebbero stati il frutto di “una risposta disperata all’elezione di un governo israeliano ostile che incoraggia i coloni estremisti ad attaccare i palestinesi”? Nemmeno Abu Mazen era arrivato a tanto. Quello stesso Abu Mazen che il 16 settembre scorso ha invocato il sangue puro dei martiri contro gli sporchi ebrei rei di insozzare con la loro presenza il Monte del Tempio. Tempio mai esistito, ovviamente, per i palestinesi più fanatizzati.
La colpa degli attacchi all’arma bianca nulla ha a che vedere con gli incitamenti di Abu Mazen, con la politica dell’odio religioso, con l’antisemitismo coltivato in famiglia e nelle moschee e distillato ogni giorno come un veleno letale. No. Per Gavron, tutto questo è inesistente. Si tratta della reazione al governo Netanyahu, ci spiega. Nessuno sul fronte arabo-palestinese lo ha detto, ma non importa. Gavron sa che la ragione è questa.
Netanyahu e i coloni estremisti. I cattivi, inesorabilmente israeliani e i buoni, gli innocenti palestinesi, gli “oppressi”, sempre mondi e giustificati. La “disperazione” di ragazzi della media borghesia palestinese con case comode e gadget americani che funzionano con tecnologie made in Israel. Questi nuovi umiliati e offesi i quali si ribellano contro la violenza “spaventosa” di una società ingiusta come quella israeliana. Per trovare la giustizia occorre infatti recarsi a Gaza, oppure uscire da Israele e visitare l’Iran o la Siria, o l’Egitto. Lì, dove non ci sono coloni e soprattutto dove non ci sono Netanyahu e Naftali Bennet.
“Il dibattito interno in Israele è più militante, minaccioso e intollerante di quanto non lo sia mai stato. Sembra che ci sia una sola voce accettabile, orchestrata dal governo e dai suoi portavoce e proiettata in tutti gli angoli del paese da un clan di media. Quei pochi dissidenti che cercano di contraddirla vengono, nella migliore delle ipotesi, ridicolizzati e nel peggiore dei casi minacciati, vilipesi e aggrediti.”
Nella prosa delirante di Gavron, Israele è diventato come la Romania di Ceausescu o la Berlino del Terzo Reich. A breve sentiremo dell’aggressione subita dallo stesso autore, il quale, con ogni probabilità, ha scritto questo pezzo clandestinamente e, con grande coraggio, lo ha pubblicato con il proprio nome. Che fine farà Gavron in questa terribile realtà distopica in cui “l’unica voce del governo” orchestra l’opinione pubblica e costringe i dissidenti alla lotta, all’eroica resistenza?
“In questo ultimo round di combattimenti, il volume è stato alzato ancora di un’altra tacca. Quello che ho sentito e letto mi ha lasciato sgomento: c’è stata una demonizzazione dei palestinesi e degli arabi israeliani. La settimana scorsa, poi, il trend ha raggiunto il suo picco più assurdo con la ridicola affermazione del primo ministro Netanyahu: Hitler decise di annientare gli ebrei solo dopo essere stato consigliato dal Mufti di Gerusalemme Haj Amin al-Husseini.”
Poteva mancare la “demonizzazione” dei palestinesi e degli arabi-israeliani? Gli “oppressi” sono innocenti per definizione. Forse anche Haj Amin al-Husseini era un oppresso, si ribellava all’immigrazione ebraica e per questo dava consigli, si attivava, lui che aveva così a cuore il proprio popolo. Andava da Hitler, istruiva contingenti musulmani in Serbia, si opponeva a Himmler quando costui voleva scambiare 50000 bambini ebrei con 20000 prigionieri tedeschi. Husseini voleva fossero tutti gassati (come avvenne). Husseini, padre nazionale dei palestinesi, levatrice di Arafat, che durante gli anni 30 e tutta la Seconda Guerra Mondiale e anche dopo fu la voce araba di maggior richiamo nel manifestare nel modo più violento il proprio parossistico antisemitismo. Lui che ha insuffalto come nessun altro l’antisemitismo religioso di matrice islamica nel contesto del conflitto arabo-israeliano. Ma il problema è Netanyahu.
“E il tono sempre più intollerante, bollente, razzista del dibattito israeliano è il risultato di 48 anni di occupazione di un altro popolo: degli israeliani che ricevono il messaggio (o almeno così lo intendono) di essere superiori agli altri, di controllare il destino di quegli altri inferiori, di poter ignorare le leggi e i principi della moralità umana se si tratta dei palestinesi”
Bisogna proseguire. Avere voglia di farlo, soprattutto in mezzo a questa melma di estremismo menzognero che rasenta l’allucinatorio.
Gli sporchi ebrei, dai piedi sporchi (solo per citare le ultime esternazioni dell'”oppresso” Abu Mazen), e gli ebrei discendenti di “scimmie e maiali” come recita un celebre hadit.
Il razzismo, tuttavia, è solo quello israeliano e soprattutto del governo attuale. E’ tutta colpa dell”occupazione”. Si sa. Anche i progrom degli anni ’30, la rivolta del ’36, la Guerra di Indipendenza, la Guerra dei Sei Giorni, la jihadizzazione del conflitto, è tutto opera dell”occupazione” di Giudea e Samaria da parte dell’esercito israeliano.
Come si stava bene, dal ’48 al ’67, quando la Giordania non le aveva “occupate” ma se le era semplicemente annesse illegalmente e la mattina, appena svegli, si respirava un’aria buona, pulita, judenfrei…
Quanto alla “moralità umana” e le sue leggi “il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”, non c’è dubbio che furono i palestinesi e gli arabi a ispirare il detto a Immanuel Kant.
“C’è solo un modo per rispondere a ciò che sta accadendo oggi in Israele: dobbiamo fermare l’occupazione. Non per la pace con i palestinesi o per il loro bene (anche se hanno sicuramente sofferto per mano nostra per troppo tempo), non per una visione di un idilliaco Medio Oriente. No, dobbiamo fermare l’occupazione per noi stessi. In modo che possiamo guardarci negli occhi, chiedere e ricevere il sostegno del mondo. In modo da poter tornare ad essere umani.”
Ecco. La soluzione. Lasciare Giudea e Samaria nelle mani di Fatah e Hamas. Nessuno ci aveva mai pensato. E’ così semplice. Ci penseranno loro poi, come a Gaza nel 2007, a fare risplendere “le leggi e i principi della moralità umana”. Lo faranno per se stessi e soprattutto per gli ebrei…pardon, per gli israeliani…gli ebrei non centrano nulla. L’antisemitismo non c’entra nulla. E’ l’occupazione bellezza! Il resto è solo D-E-M-O-N-I-Z-Z-A-Z-I-O-N-E.
Una volta che l’esercito israeliano avrà lasciato Giudea e Samaria come fece a Gaza nel 2005, ci si guarderà negli occhi felici, e soprattutto si riceverà il sostegno dell’ONU e magari anche quello di Theran.
Siamo giunti alla fine di questo mirabile pistolotto.
“Quali che siano le conseguenze, non possono essere peggiori di quelle con cui siamo alle prese ora. Non importa quanti soldati dispieghiamo in Cisgiordania, o quante case di terroristi facciamo saltare in aria, o quanti lanciatori di pietre arrestiamo, non abbiamo alcun senso di sicurezza. Nel frattempo, siamo diventati diplomaticamente isolati, percepiti in tutto il mondo (a volte giustamente) come carnefici, bugiardi, razzisti. Fino a quando c’è l’occupazione, noi siamo la parte più potente, noi decidiamo degli eventi e non possiamo continuare a incolpare gli altri. Per il nostro bene, per la nostra salute mentale – dobbiamo fermarci ora.”
Dimettere il “potere”, soprattutto quello militare. Lasciare agli “umiliati e offesi” la loro autodeterminazione e lo sviluppo delle magnifiche sorti e progressive, come quando gli imperi coloniali si ritirarono e iniziarono poi a chiedere scusa per le malefatte. E Israele, si sa, è un prodotto dell”imperialismo” e del “colonialismo”. Siamo noi il male, loro sono il bene, la carne autoctona stuprata dal “potere”. “Non possiamo continuare a incolpare gli altri”. E’ vero. Dobbiamo cominciare a incolpare noi stessi.
Gavron, questo triste menestrello del più trito e scostumato autoflagellamento, in questa zuppa di luoghi comuni della sinistra più retrò, non si è ancora accorto che è da molto tempo che è Israele ad essere incolpato e che è l’Occidente che si incolpa. E’ la massima moda corrente. Lo Zeitgeist. E’ il Mea Culpa quotidiano in cui la sinistra israeliana è campionessa tra i campioni. Musica per le orecchie degli eredi degli assassini professionisti e dei criiminali islamo-nazisti, anche se non hanno ispirato direttamente la Shoah.
“Confessione di un traditore” si chiama il pezzo di Gavron.
L’autoesaltazione dannunziana per la propria ignominia non assolve da essa. Soprattutto quando, invece di essere Gabriele D’Annunzio, si è soltanto rimestatori di rimasugli.