La Svezia è stato il primo paese europeo a riconoscere, nel 2014, lo stato palestinese. Fu Margot Wallström ministro, o meglio “ministra” degli Esteri a dichiarare solennemente, “Oggi il governo prende la decisione di riconoscere lo stato della Palestina”.
Quando l’annuncio venne fatto, persino l’Amministrazione Obama fece presente alla Svezia come fosse prematura la dichiarazione, ricordando al governo in carica che il venire in essere di uno stato palestinese fosse necessariamente subordinato a un processo negoziale con quello ebraico. Non importa, per il governo di Stoccolma l’essenziale era mostrarsi all’avanguardia nello zelo propalestinese. Uno zelo parallelo venne mostrato nella condanna nei confronti di Israele. Fu la stessa Wallström, l’anno dopo, a riferirsi alle uccisioni da parte dell’esercito israeliano dei terroristi palestinesi protagonisti della cosiddetta Intifada dei coltelli come a casi di “esecuzioni extragiudiziarie”. Non fu da meno il premier svedese, Steven Löfven, quando affermò che le aggressioni al coltello nei confronti di civili e militari israeliani non potevano venire considerate terrorismo, essendoci una “classificazione internazionale” in merito alla quale le azioni omicide palestinesi, non “essendo chiaro” se fossero pianificate oppure no, non rientravano a pieno titolo. A Löfven era sfuggito il fatto che nei mesi delle aggressioni e uccisioni con i coltelli, esistesse sui social network, Facebook in testa, una intera rete araba e musulmana di istigazione alla violenza fatta di innumerevoli post in cui venivano forniti anche disegni dettagliati sulle modalità più efficaci per colpire gli organi vitali delle vittime israeliane.
Non era necessario l’ex ambasciatore israeliano in Svezia, Zvi Mazel, per capire (come dichiarò in una intervista) che la campagnia di delegittimazione nei confronti di Israele da parte del governo Löfven e il ricoscimento dello stato palestinese null’altro fossero se non una clamorosa captatio benevolentiae nei confronti della vasta minoranza musulmana che vive nel paese.
Eppure anche Löfven, a un certo punto, ha dovuto riconoscere che c’è del marcio in Svezia, utopia del multiculturalismo realizzato. Fu nel novembre del 2015 quando ammise, che “La Svezia è stata ingenua…Forse è stato difficile per noi accettare che nella nostra società aperta, proprio in mezzo a noi, ci sono persone, cittadini svedesi i quali sono simpatizzanti con gli assassini dell’ISIS”. Fu una parziale dichiarazione di capitolazione dopo la persistenza con la quale il suo governo aveva costantemente dichiarato che l’immigrazione di massa musulmana non aveva creato alcun problema tacitando i critici come “razzisti” e “islamofobi”.
“Sappiamo che circa 300 cittadini svedesi sono andati in Siria per arruolarsi nelle file dell’ISIS”, dovette dichiarare Löfven quando i dati divennero di pubblico dominio. Peccato che la sua resipiscenza giungesse sei mesi dopo l’avvertimento da parte del capo dei servizi di sicurezza, Anders Thornberg, il quale aveva fatto presente che i jihadisti si sarebbero avvantaggiati del sistema di accoglienza svedese, che consente ai profughi il diritto di asilo pur essendo sprovvisti, nel 90% dei casi, dei documenti di identificazione.
Il mito multiculturalista della società integrata di cui la Svezia socialdemocratica si vuole proporre come la punta di diamante del Nord Europa viaggia di pari passo con il più radicato pregiudizio anti-israeliano. Per socialisti duri e puri dell’universalismo affratellante non si può certo concepire uno stato che, come quello ebraico, difende la sua specificità nazionale rivendicando la propria etnicità, se non come uno scarto della storia superato dalle magnifiche sorti e progressive del melting-pot indifferenziato. Naturalmente, poi, si fa eccezione per l’integrità identitaria di un futuro e ulteriore stato islamico per ora nato solo sulla carta.