Come sempre, è incoraggiante dare per prime le notizie positive, lasciando quelle negative per ultime.
Sono tre, una più sorprendente dell’altra e tutte trascurate dai nostri media, benché siano suscettibili di farci intravedere un mutamento strategico rilevante nell’area mediorientale.
La prima riguarda la vendita di tecnologia per droni che Israele sta fornendo all’Arabia Saudita, attraverso una triangolazione con il Sudafrica. Secondo media russi l’Arabia Saudita starebbe costruendo una fabbrica di droni basata su questa tecnologia, ma un analista molto ben informato, noto col nomignolo di Mujtahid, sostiene che in realtà i droni arriverebbero in Arabia Saudita smontati e lì verrebbero solo assemblati. La più nota industria di tecnologia militare israeliana, la Rafael, ha anche firmato un contratto con l’indiana Reliance che vale dieci miliardi di dollari.
Sempre l’Arabia Saudita, che si muove anche per contrastare le mire di predominio regionale dell’Iran, ha firmato un accordo con l’Egitto in base al quale acquisisce il controllo delle due isole che sono situate nel Golfo di Aqaba, Sanafir e Tiran, la cui importanza strategica è dimostrata dal fatto che il blocco di quello Stretto, che nel giugno del 1967 bloccò la via d’acqua internazionale da cui dipendevano i collegamenti di Eilat col Mar Rosso, fu il casus belli che formalmente giustificò la Guerra dei Sei Giorni.
Nel trattato di pace fra Egitto ed Israele del 1979 lo status di quelle isole fu dettagliatamente descritto allo scopo di impedire in futuro altri blocchi che potessero causare un conflitto, ed ora il ministro degli Esteri saudita, Adel al-Jubeir, ha affermato che il suo paese onorerà tutte le clausole di quel trattato che assicurano la disponibilità del collegamento fra Israele ed il Mar Rosso. Di fatto, l’Egitto ha trasferito la sovranità sulle due isole all’Arabia Saudita, che comunque erano già in precedenza appartenenti a questo stato, che nel 1950 le aveva solo “affittate” all’Egitto. E siccome non si fa nulla per nulla, l’Arabia Saudita investirà 16 miliardi di dollari nella malandata economia egiziana.
La terza buona notizia è certamente meno significativa sotto il profilo geopolitico, ma potrebbe costituire un passo in avanti nei difficili rapporti fra Israele e l’Autorità Palestinese. Domenica scorsa Mohammad al-Madani, autorevole membro del comitato centrale di al Fatah e capo del comitato palestinese per l’interazione con la società israeliana (una denominazione che dice molto), ha inviato ai media israeliani un messaggio nel quale formula “i saluti cordiali agli israeliani per la festa della libertà”, aggiungendo l’augurio che “anche i palestinesi possano conquistare la libertà e creare uno stato che viva a fianco di Israele per far prevalere la pace nella regione”. Il messaggio si concludeva con un “Amen” (così sia). Non è la prima volta che Madani mostra vicinanza con Israele, ed in marzo egli aveva guidato una delegazione palestinese che si era recata in visita di condoglianze alla casa di un generale israeliano, morto in un incidente aereo. Se a ciò aggiungiamo l’efficace collaborazione di Abu Mazen nel bloccare una “intifada dei coltelli” che stava sfuggendo al controllo suo e di Israele possiamo supporre che, finalmente, qualcosa si stia muovendo anche in quello scacchiere.
Ed ora concludiamo con la cattiva notizia: cattiva, ma non sorprendente.
L’ineffabile UNESCO ha approvato una risoluzione presentata da Giordania, Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Omar, Qatar e Sudan, che impone di non riferirsi più al sito sul quale sorge la moschea di Al Aqsa e sorgevano durante mille anni il tempio di Salomone ed il tempio di Erode (il primo distrutto dai babilonesi, il secondo dai romani) con il nome di Monte del Tempio, bensì di usare sempre e solo la denominazione araba di Haram al-Sharif o di al-Buraq. Questa decisione è stata sostenuta anche dal voto di Argentina, Francia, Spagna, Slovenia, Svezia, India e Russia. La medesima risoluzione stabilisce anche che Hebron e Betlemme, entrambe con una trimillenaria storia ebraica, sono “parte integrante della Palestina”. Già nell’ottobre dello scorso anno la delegazione palestinese all’UNESCO aveva proposto una risoluzione nella quale il Muro occidentale o Muro del pianto, unico residuo del Secondo Tempio ed unico luogo sacro per gli ebrei, veniva classificato come parte integrante del complesso islamico situato sul Monte del Tempio – pardon, su Haram al-Sharif. Solamente la reazione negativa di Russia Cina e Cuba (!) aveva impedito che questa risoluzione fosse votata.
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