Sempre più spesso nel dibattito politico americano, e per le più svariate ragioni, riemerge il tema degli aiuti militari americani a Israele. Questo tema, saltuariamente, è presente anche nella stampa europea, e viene affrontato sempre in modo da presentare delle critiche a questo presunto favoritismo americano nei confronti dello Stato ebraico.
L’ultima puntata del dibattito politico americano in merito al tema è andata in onda alcuni giorni fa, quando il candidato repubblicano alle presidenziali, Vivek Ramaswamy, ha dichiarato durante un’intervista ripresa dal Jerusalem Post (https://www.jpost.com/american-politics/article-755250) che “se gli accordi di Abramo, nel prossimo futuro, si estenderanno all’Arabia Saudita, all’Oman e all’Indonesia, non c’è più bisogno che Israele riceva i generosi aiuti militari americani”. Questa posizione è la prima così netta espressa da un candidato repubblicano, mentre è sempre più diffusa in seno al partito democratico.
Bisogna sottolineare che gli attuali aiuti militari, pari a 3,8 miliardi di dollari annui furono decisi dal presidente democratico Barak Obama alla fine del 2017 e hanno validità decennale. L’accordo scadrà nel 2028.
Questa considerevole cifra è la più grande (con esclusione dell’Ucraina invasa dalla Russia) riservata a un paese alleato degli USA, ma non è l’unica. Infatti, aiuti militari ne ricevono anche l’Egitto, la Giordania, il Libano e l’Autorità Palestinese e ne hanno ricevuti l’Iraq e l’Afghanistan (con cifre colossali). Però, a differenza di quelli riservati a Israele, gli altri aiuti non diventano mai tema del dibattito politico americano o europeo. Tanto è vero che l’opinione pubblica americana e straniera non ne è, praticamente, a conoscenza.
Nessuno sa che Israele, Egitto e Giordania ricevono questi aiuti come “ricompensa” americana per aver firmato i rispettivi trattati di pace. Tutti si focalizzano esclusivamente su quanto riceve Israele. Soprattutto in campo democratico il tema degli aiuti è sempre più utilizzato come strumento di ricatto politico verso Israele per giustificare l’ingerenza americana nella politica interna israeliana, come se fosse una sorta di repubblica delle banane in cui l’amministrazione americana può intervenire pesantemente “per il bene di Israele”. Quando questo non avviene si usa il pretesto – esclusivamente in ambito democratico – del modo in cui Israele “tratta” i palestinesi per chiedere la fine degli aiuti militari e ricattare Israele. Su questo aspetto occorre fare una veloce precisazione. Il “trattamento” dei palestinesi da parte di Israele è un’autentica leggenda visto che dalla stipula degli Accordi di Oslo del 1993 è l’Autorità Palestinese ad amministrare i palestinesi sia in Giudea e Samaria che a Gaza.
Israele interviene nelle aree di amministrazione palestinese esclusivamente per ragioni di sicurezza quando il terrorismo (endemico) si inasprisce ed è richiesto l’intervento dell’esercito per fare quello che l’apparato di sicurezza palestinese – lautamente mantenuto con gli aiuti americani – non fa, anche se è tenuto a fare, cioè porre fine al terrorismo. La cosa curiosa di questo dibattito politico è che verte esclusivamente su Israele. Un simile standard di attenzione ai “diritti” non è richiesto né all’Egitto di Al-Sissi né alla Giordania di Abdallah, Stati ben poco attenti ai diritti civili, ma neanche al Libano.
Il Libano merita una menzione speciale.
In territorio libanese vivono dal 1948 diverse centinaia di migliaia di palestinesi, che però hanno l’obbligo di vivere esclusivamente in campi profughi senza potersi muovere liberamente all’interno del paese. Non possono accedere alle scuole pubbliche, ai più svariati mestieri e lavori pubblici o privati, non possono acquistare case o terreni, in pratica vivono in un regime di autentico apartheid, ma curiosamente nessuno si scandalizza del “trattamento” riservato ai palestinesi da parte del Libano e questo “trattamento” non è ritenuto un valido motivo tra i democratici americani per cessare di fornire aiuti militari al Paese dei cedri.
A queste prese di posizioni politiche da parte democratica si stanno aggiungendo le prese di posizione di alcuni esponenti repubblicani che non utilizzano la forma falsa e ipocrita del rispetto dei “diritti umani”, ma un altro modulo altrettanto subdolo, quella del “costo” dell’aiuto americano a Israele per il “contribuente americano”.
Questa tesi è sempre più il cavallo di battaglia dei gruppi di estrema destra americana, che vedono Israele e gli ebrei in generale come delle “sanguisughe” che succhiano il sangue del cittadino bianco americano. Si tratta di un tropo antisemita dalle radici profonde che si sta ampliando, visto che in campo repubblicano si parla sempre più spesso del tema degli aiuti militari americani a Israele, cosa che in passato non era un tema di dibattito politico. Anche per questa ragione Israele dovrebbe affrancarsi dagli aiuti militari americani.
Va sottolineato che gli americani hanno fornito armi a Israele solo a partire dalla fine degli anni ’60 dopo che per vent’anni hanno mantenuto un embargo sulle armi deciso nel lontano 1947. Inoltre, è solo dopo il 1979 che sono iniziati gli aiuti (a seguito della pace con l’Egitto).
Come si può capire facilmente, durante i primi trent’anni di vita dello Stato, Israele era molto più debole e povero dello Stato attuale ma ha saputo resistere senza le armi americane e senza i suoi aiuti militari. Perché allora dovrebbe dipendere dagli USA ora che è molto più forte militarmente ed economicamente?
Il mero risparmio economico sta progressivamente diventando un boomerang dai pericolosissimi risvolti politici ed economici. Se si analizzano più in profondità gli aiuti militari americani, si scopre che per il 95% sono stanziati con l’obbligo, da parte di Israele, di acquistarli presso fornitori americani, sono quindi, di fatto, una commessa per le stesse industrie militari americane.
Gli USA spendono annualmente oltre 700 miliardi di dollari per la difesa, quindi la quota “riservata” a Israele rappresenta circa lo 0,5% del budget complessivo. Tale impegno economico, non è dunque colossale, ma è meramente a fondo perduto? No, perché Israele, a differenza di Egitto, Giordania, Libano e altri, partecipa attivamente alla ricerca e allo sviluppo dell’industria bellica americana che ne trae così enormi benefici in termini di maggiore sviluppo e qualità tali da rende l’appartato militare USA il più avanzato al mondo. Inoltre, questa superiorità militare americana non solo si traduce una maggiore sicurezza difensiva di USA e NATO ma si traduce anche in una maggiore possibilità di esportazione di armi americane in tutto il mondo con enorme beneficio della stessa economia americana e questo, senza dubbio, vale ben più dello 0,5% del budget per la difesa.
In parole povere gli USA non forniscono “gratis” le armi a Israele ma di fatto hanno maggiori benefici che costi. Gli apparati militari americani questo lo sanno benissimo così come i presidenti, tanto è vero che il presidente Barak Obama, il più ostile nei confronti di Israele della storia degli Stati Uniti, non solo non ha interrotto gli aiuti ma li ha addirittura incrementati.
Se si analizza la questione dal lato di Israele, ci accorgiamo che di fronte ad un notevole risparmio economico (3,8 miliardi di dollari annui) c’è una maggiore ingerenza politica americana che sfocia sempre più in ricatti politici e diplomatici (negli ambienti di sinistra), oltre che al già citato sentimento antisemita coltivato in base ai presunti costi per il contribuente americano in merito agli aiuti (negli ambienti di destra). Oltre a ciò, bisogna considerare il danno causato da questi aiuti all’industria israeliana della difesa, in quanto il ministero della Difesa israeliano non potendo investire quei soldi nelle industrie locali ma in quelle americane fa si che non ci sia un ulteriore sviluppo della propria industria militare, la quale, in molti campi è superiore a quella americana. Questo fatto porta due gravi conseguenze, la prima è di mettere in subordine l’industria bellica nazionale a quella americana (e questo si traduce in maggiore ricattabilità); la seconda è di non far concorrenza alle imprese militari americane in molte occasioni.
In pratica esiste un patto non scritto nel quale Israele si impegna a rinunciare a partecipare a forniture a paesi terzi se questo li pone in concorrenza diretta con gli americani. Valgano due esempi tra i tanti.
Negli anni ’80 Israele iniziò a sviluppare un proprio caccia multiruolo, il Lavì, che per tante sue caratteristiche era perfino superiore agli F-16 americani. Gli americani fecero molte pressioni su Israele affinché abbandonasse il progetto per paura di avere un concorrente per gli F-16.
Gli USA incrementarono gli aiuti militari e Israele non andò oltre alla fase di prototipo dell’aereo che non divenne mai un concorrente reale dell’industria aereonautica americana.
Più recentemente, su pressione americana, Israele ha rinunciato a una commessa vinta per la fornitura di aerei F-16 alla Croazia, considerati “vecchi” per gli standard israeliani anche se l’avionica israeliana era molto moderna per gli standard internazionali, le pressioni americane.
Quindi, Israele si ritrova dei benefici economici che se analizzati nel dettaglio sono inferiori ai benefici di una propria industria militare ben sviluppata con maggiori investimenti e coadiuvata da mercati internazionali non soggetti al “veto” americano.
In conclusione, per quanto esposto, sia dal punto di vista politico che da quello militare, per Israele sarebbe molto meglio diventare un semplice cliente dell’industria militare americana (come di altri paesi) e non rimanere ancorato ai benefici degli “aiuti” che, nel lungo periodo, stanno diventando sempre più onerosi e dannosi.